Foe, di J. M. Coetzee | Il problema di parlare a nome dell'Altro
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Quando lo scrittore sudafricano J.M. Coetzee era solo un bambino fece una scoperta che l’avrebbe perseguitato per anni. Aveva letto con grande interesse La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, tanto che il protagonista assunse un ruolo chiave nel suo immaginario. Un giorno però aprì la Children’s Encyclopaedia, un’enciclopedia per ragazzi scritta dal giornalista inglese Arthur Mee, e si trovò davanti a una sorprendente scoperta. Oltre a Crusoe e Venerdì, vi era un terzo personaggio nella storia. Quest’uomo “portava una parrucca e si chiamava Daniel Defoe” (il libro è stato infatti spesso presentato come l’autobiografia del protagonista). Chi era quest’uomo? “Cosa aveva fatto per ritrovarsi nell’enciclopedia assieme a Robinson Crusoe?” si chiese J.M.Coetzee, come racconta nel suo discorso di accettazione del premio Nobel.
Quarant’anni dopo essersi posto queste domande, il bambino sorpreso è diventato egli stesso un autore. A metà anni ’80 Coetzee pubblica Foe, una riscrittura post-coloniale di Robinson Crusoe. Questo romanzo filosofico testimonia sia il fascino di Coetzee per la questione dell’autorialità sia il suo impegno politico. Foe è una sofisticata riflessione sul potere delle narrazioni e uno studio dei meccanismi di assoggettamento nelle relazioni razziali, sessuali e testuali.
La possibilità di rappresentare l’Altro
Il romanzo racconta la storia di Susan Barton. Susan è una donna che fa naufragio su di un’isola abitata da Cruso, un inglese, e Venerdì, il suo schiavo. Una volta riuscita a tornare in Inghilterra Susan contatta un certo Mr. Foe (cognome originale di Daniel Defoe) e gli chiede di scrivere la storia del suo naufragio. Lei è l’unica a poterla raccontare, poiché Cruso è morto e Venerdì ha perso la lingua. Foe all’inizio la aiuta nel progetto per poi ostacolarla, provando a imporre una serie di cambiamenti alla sua trama.
Alla pubblicazione Foe venne accolto con sconcerto in Sudafrica. Era il 1986 e la situazione più tesa che mai. Uccisioni di attivisti e dissidenti erano all’ordine del giorno. Nel 1987 la Commissione per i Diritti Umani riconosceva almeno 340 omicidi politici in Sudafrica, e questi erano solo la punta dell’iceberg. In un tale contesto, Foe appariva troppo scollato dalla situazione critica del paese. È difficile capire perché Coetzee abbia rivolto la sua attenzione a un romanziere britannico del 18° secolo quando c’erano questioni più urgenti da affrontare.
Eppure, Foe affronta un problema profondamente politico. Il problema della rappresentazione e del potere. Nel libro, Coetzee si domanda: può un autore rappresentare l’Altro?
Altro n°1: il naufrago donna
Per Susan Barton, pubblicare la sua storia è un’occasione per dare una svolta positiva alla sua vita. Non solo la renderebbe ricca, ma soprattutto libera. Infatti, finché il passato non è scritto, lei è incapace di dargli senso. Per questo motivo, se da un lato vuole che la storia la renda famosa, dall’altro vuole che sia scritta come dice lei, a modo suo.
Foe vuole però trasformare la storia di Barton in un popolare romanzo d’avventura. Le fa pressioni affinché riveli dettagli della sua vita prima del naufragio, in quanto il racconto dell’isola da solo risulterebbe noioso. Susan Barton si rifiuta.
Scelgo di non raccontarla, perché a nessuno, nemmeno a voi, devo dimostrare di essere una creatura dotata di consistenza con una storia vera dotata di consistenza. […] Perché sono una donna libera che afferma la propria libertà raccontando la propria storia secondo i propri desideri.
La lotta di Susan per decidere la narrazione non è solo personale, ma anche politica. Come lei stessa fa saggiamente notare, “l’ultima parola ce l’ha chi dispone della forza maggiore”.
Altro n° 2: Venerdì, “figlio del proprio silenzio”
Eppure, nonostante appaia profondamente dedicata alla verità, Susan Barton si comporta diversamente nei confronti di Venerdì, da lei chiamato “figlio del proprio silenzio”. Per riempire questo silenzio, continua a mettergli in bocca parole non sue. Non si fa scrupoli nel riscrivere la sua storia come le pare. Sostanzialmente, Susan vuole esercitare su Venerdì lo stesso potere che Foe esercita su di lei.
Non è chiaro se Venerdì sia incapace di esprimersi o non voglia proprio. Inizialmente, il suo silenzio potrebbe apparire come manifestazione della sua completa mancanza di potere. Alla fine del libro però gli viene data l’opportunità di esprimere i suoi pensieri disegnandoli su una lavagna, ma si rifiuta poi di mostrarli a Susan. In un certo senso, il silenzio potrebbe essere il suo modo di non soccombere alla narrazione di qualcun altro.
Sia come sia, il significato del suo mutismo è quasi sicuramente legato alle relazioni di potere razziali. Lo scrittore sudafricano Rian Malan ha osservato che Foe rappresenta “le relazioni razziali in una società in cui i bianchi erano spesso separati dai neri da un abisso di incomprensione linguistica e culturale”.
Le politiche della narrazione
Risulta infine facile capire l’influenza di Coetzee sulla letteratura post-coloniale. Foe non è solo una storia, ma una critica metanarrativa della narrazione. Foe riconosce come la narrativa può modellare l’esperienza e le soggettività umane, e investiga questo potere. Non solo, conduce questa indagine dal punto di vista di chi non ha potere.
Coetzee ha ricevuto il premio Nobel nel 2003. Nella motivazione viene dipinto come un autore “che in innumerevoli modi ritrae il sorprendente coinvolgimento dell’outsider“.
Può un autore rappresentare l’Altro? Il libro sembra rispondere negativamente: sia Foe che Susan Barton assumono un atteggiamento autoritario quando parlano a nome di qualcun altro. Eppure, leggendo Foe, si ha la sensazione che almeno Coetzee ci sia riuscito.
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