Il seme della follia | Il testamento di un narratore
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Pur non essendo il suo ultimo film o il più famoso, Il seme della follia può essere visto come il testamento di John Carpenter alla sua attività di narratore, grazie a una natura auto-riflessiva che si manifesta fin dalla trama.
Lo scrittore horror di successo Sutter Cane (Jürgen Prochnow) è misteriosamente scomparso, e con lui il manoscritto del suo ultimo romanzo, intitolato “Il seme della follia” (in originale “In the Mouth of Madness”). La sua casa editrice assolda l’investigatore John Trent (Sam Neill) per cercarlo, affinché l’attesissimo libro possa finalmente essere pubblicato in tutto il mondo. Trent troverà Cane nella cittadina di Hobb’s End, teatro di tutti i romanzi dello scrittore. Ma quando le sue storie iniziano a prendere vita, il confine tra realtà e finzione, tra sanità mentale e follia, si fa sempre più sfumato. Il seme della follia non è solo un libro, ma un varco per l’apocalisse.
“Sutter Cane vende di più, ha battuto perfino Stephen King.”
l personaggio di Sutter Cane è un’allusione satirica a Stephen King. Ciò contro cui Carpenter si scaglia però non è lo scrittore o le sue opere (circa dieci anni prima aveva adattato il romanzo di King del 1983 Christine), ma il marketing massiccio e insensato che le circonda. Il film sostiene, non tanto velatamente, che se al posto di King si presentasse uno scrittore mefistofelico con un curriculum di romanzi che scatenano l’isteria di massa, questi verrebbe ritenuto finanziabile e pubblicato. La critica al consumismo e allo show business è evidente. Le storie sono solo altre merci tra produrre e vendere in serie. L’apocalisse è una scommessa buona come un’altra.
Per Carpenter è una questione personale. La sua carriera è infatti la storia di un lungo braccio di ferro con l’industria cinematografica. Assoldato dagli studios dopo che il suo Halloween (1978) fece breccia nel mainstream, il regista fu poi lentamente riconfinato nel cinema indipendente non appena le sue vedute intransigenti si sono scontrate con gli introiti al botteghino: La cosa fu un flop per via del suo nichilismo; Grosso guaio a Chinatown (1986) per aver parodizzato il tropo del macho bianco proprio mentre stava raggiungendo il suo apice a metà degli anni ’80. Con Il seme della follia, Carpenter si prende la sua rivincita.
“La realtà non è più quella di prima.”
Il seme della follia è l’ultimo capitolo, dopo La cosa e Il signore del male, della “trilogia dell’Apocalisse” di Carpenter. Pur non essendo collegati tra loro in termini di trama, dal punto di vista tematico appartengono tutti al cosmic horror. Con la serie il regista omaggia il pioniere del sottogenere e uno dei suoi padri creativi: H. P. Lovecraft.
Il cosmic horror si basa sull’idea che l’umanità sia insignificante in confronto all’immensità dell’universo, oltre che priva di potere di fronte alle onnipotenti creature aliene che lo governano e che minacciano di distruggere l’umanità nei loro piani. Questa rivelazione porta i personaggi lovecraftiani a uno scenario “prendere o lasciare” puramente nietzschiano: possono accettare con entusiasmo il grande disegno o sprofondare in una disperata follia.
Ritengo che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana a mettere in correlazione tutti i suoi contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell’infinito, e non era destino che navigassimo lontano. Le scienze, ciascuna tesa nella propria direzione, ci hanno finora nuociuto ben poco; ma, un giorno, la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.
L’incipit di Il Richiamo di Cthulhu di Lovecraft.
Il seme della follia offre una nuova rilettura di tutto questo. Non è solo il mondo a trovarsi a rischio, ma la realtà stessa. Il protagonista dovrà affrontare un genio maligno che plasma l’esistenza con le sue storie. O forse no, visto che il dubbio che sia sprofondato nelle fauci della follia è la colonna portante di tutta la tensione. Il montaggio porta alle estreme conseguenze questa ambiguità, configurando la narrazione in una struttura a forma di nastro di Möbius che quasi anticipa gli ultimi film di David Lynch.
“Non è la fine, quella non l’hai ancora letta.”
Adattando il cosmic horror alla meta-narrazione, il film costruisce un monumento, per quanto pessimistico, sul potere del raccontare. Lancia un monito contro il perenne rischio della propaganda – sia essa politica, aziendale o religiosa. Viceversa, se inserito nel contesto dell’intera filmografia di Carpenter, Il seme della follia può essere visto come il testamento di un narratore.
Tutta l’opera del regista si basa sulla consapevolezza di questo potere narrativo. Le storie possono vivisezionare la società contemporanea. Possono offrire un’interpretazione a interrogativi senza tempo. Possono manipolare la realtà per cercare di vedervi attraverso (come dimostra il suo altro film programmatico del 1988 Essi vivono), per quanto spiacevole possa essere.
Gli horror di Carpenter spaventano perché si rifiutano di rassicurare chi li guarda. E durano perché esortano ad agire. I titoli di coda non sono la fine. Il vero gran finale sta in ciò che il pubblico farà dopo.
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