
No Other Land | Perché il documentario israelo-palestinese che ha vinto l'Oscar è senza precedenti
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This is a story about power.
Basel Adra, No Other Land
No Other Land, premio per il miglior documentario e premio del pubblico nella sezione documentari al Festival di Berlino 2024 e fresco vincitore dell’Oscar al miglior documentario 2025, è un’opera di grande potenza visiva ed emotiva. Un unicum artistico capace di trasformare la documentazione di un conflitto in un’esperienza estetica e sensoriale che pone il pubblico spettatore di fronte a una realtà incontestabile.
Sfuggendo ai parametri convenzionali del cinema documentario, gran parte del film è composta dai filmati amatoriali di Basel Adra, che ha iniziato a documentare l’occupazione israeliana del suo villaggio a Masafer Yatta quando aveva solo quindici anni. Queste immagini, che rendono la storicità e la durata della lotta, si alternano a quelle degli ultimi anni.
Il documentario è diretto da un collettivo israelo-palestinese formato da Basel Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor. È proprio questa eterogeneità di punti di vista che rende No Other Land una rarità nel panorama documentaristico contemporaneo.
- Resistere è non muoversi mentre tutti scappano
- Un’estetica sensoriale al servizio della verità
- Due popoli e un’apartheid
- Guerra moderna e mediatizzazione: un nuovo linguaggio visivo
- Se l’immagine non cambia il mondo
- Una speranza
Resistere è non muoversi mentre tutti scappano
No Other Land ruota attorno a Basel Adra, un attivista palestinese nato in una famiglia di militanti. Adra documenta la distruzione sistematica delle comunità di Masafer Yatta, un complesso di venti villaggi palestinesi nella Cisgiordania meridionale occupata. Il documentario racconta la vita quotidiana di queste comunità prevalentemente agricole e la loro lotta generazionale per sopravvivere all’occupazione.
Yuval Abraham, un giornalista israeliano, si unisce a lui in un sodalizio che segna uno degli elementi più significativi di No Other Land. Una collaborazione tra due persone separate da una barriera politica, giuridica e militare che tuttavia decidono di guardarsi negli occhi e riconoscersi per ciò che sono: due esseri umani.
Un’estetica sensoriale al servizio della verità
Ciò che distingue No Other Land da un reportage è l’uso della macchina da presa. La fotografia, curata con sensibilità da Rachel Szor, alterna panoramiche devastate a primi piani intimi che catturano le espressioni delle vittime e degli aggressori. Così si crea un’esperienza immersiva che evoca nel pubblico un profondo senso di disorientamento e responsabilità collettiva. La macchina da presa non è un occhio distaccato, ma un testimone attivo.
Il documentario proietta chi guarda direttamente nel cuore del conflitto, senza offrire contesti storici o giustificazioni esaustive. Non c’è bisogno di ricostruire l’intera storia o di chiarire le origini dell’occupazione. Infatti, il ripetersi degli sgomberi forzati, la sistematicità della distruzione, le case demolite, le famiglie sfollate e i bambini che giocano tra le macerie rendono evidente l’aspetto unilaterale della violenza.
No Other Land procede per capitoli sempre più drammatici. Adra registra le incursioni israeliane a Masafer Yatta e pubblica sui social media le scene dell’occupazione. I bulldozer distruggono le case mentre i bambini piangono, le ruspe abbattono le scuole, i funzionari rubano i generatori elettrici, la polizia riempie i pozzi di cemento. La macchina da presa inquadra i soldati dell’IDF. Vengono chiamati per nome, riconosciuti nei loro gesti e nei loro silenzi. Sanno di essere protetti. Come diceva il poeta Vittorio Sereni, “la nostra libertà di parola è la misura della loro potenza”. Ed è così che si ottiene un’opera capace di mostrare primi piani della vittima e del carnefice mentre si guardano negli occhi.
Due popoli e un’apartheid
L’aspetto più potente di No Other Land non risiede solo nella brutalità della realtà documentata, ma anche nella dinamica tra Adra e Abraham. La loro relazione è fatta di prossimità e distanza, di amicizia e incomunicabilità. Il concetto di alterità emerge qui in tutta la sua complessità. Oltre le distanze incolmabili c’è uno spazio di tensione dialettica. Alla cerimonia di premiazione alla Berlinale, Abraham ha detto: “Tra due giorni torneremo in una terra dove non siamo uguali”. Due condizioni storiche e materiali completamente diverse; due culture divise da anni di propaganda, di apartheid e di occupazione. Eppure, attraverso il loro dialogo, il documentario suggerisce che la possibilità di riconoscersi l’uno nell’altro è l’unico vero antidoto alla violenza.
L’umanità non è un atto di negazione delle differenze, ma un continuo confronto con esse. Momenti di vera condivisione e amicizia si alternano a serate di malinconica solitudine. Si rivela la fragilità di ogni tentativo di superare le barriere imposte dalla storia. La riflessione più profonda riguarda forse la condizione di privilegio. Come Yuval tantissimi altri cittadini hanno fatto mea culpa per il loro governo. Salvo poter tornare a casa al sicuro ogni notte.
Guerra moderna e mediatizzazione: un nuovo linguaggio visivo
Al giorno d’oggi, i conflitti sono sempre più definiti dalla loro spettacolarizzazione mediatica. La memetica politica viene cooptata dagli stessi poteri che un tempo derideva. Un fenomeno evidente sia nella retorica trumpiana sia nel modo in cui viene raccontata la guerra a Gaza. Jean Baudrillard, già nel suo saggio La guerre du Golfe n’a pas eu lieu (1991), aveva anticipato questa condizione di “iperrealismo mediatico”. No Other Land si oppone a questa semplificazione.
Il documentario non accelera il tempo del conflitto. Non lo riduce a un reel o a un carosello di immagini, pur attingendo a contenuti social che ne mostrano l’impotenza. Al contrario, impone un ritmo dilatato, fatto di silenzi, attese, paure che emergono di notte prima di dormire. La sua forza sta nel mostrare la ripetitività degli sgomberi e la sistematicità della distruzione, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Paul Virilio, teorico della “dromoscopia” (la logica della velocità), ha analizzato come i media contemporanei producano una “guerra-spettacolo” che anestetizza il pubblico spettatore. Nel suo libro Guerre et cinéma. Logistique de la perception (1984), Virilio sostiene che l’immagine bellica non è mai neutra, ma è sempre uno strumento di controllo e manipolazione.
No Other Land ci pone di fronte a una persistenza visiva che obbliga alla testimonianza. A una narrazione che rifiuta la frammentazione tipica dei contenuti social. È un’opera che non lascia vie di fuga: ci chiede di vedere, di restare, di non voltarci.
Se l’immagine non cambia il mondo
Nel corso di No Other Land, Basel e Yuval riflettono sulla necessità stessa di filmare. A che cosa serve documentare tutto questo? Le immagini, che un tempo erano la prova inconfutabile di un crimine, oggi non sembrano più commuovere e muovere nessuno. Siamo diventati insensibili alla sofferenza altrui, anestetizzati dalla ripetizione della violenza nei media. Ancora prima dell’ironia imperante della memetica e del sospetto dell’intelligenza artificiale, Susan Sontag, in Regarding the Pain of Others (2003), sollevava profondi interrogativi sull’etica della rappresentazione della sofferenza. Le immagini di violenza, in un senso o nell’altro, diventano un consumo estetico che neutralizza piuttosto che sensibilizzare. No Other Land raccoglie questa sfida etica non aspirando alla spettacolarizzazione, ma alla testimonianza trasparente. La sua strategia consiste nel mostrare la sistematicità della violenza, non il suo momento drammatico, che si manifesta spesso e quando succede il suo impatto è ancora più forte.
Una speranza
Eppure, No Other Land continua a filmare, a registrare, a testimoniare. Non perché crede ingenuamente che un’immagine possa cambiare il mondo, ma perché crede che qualcuno, da qualche parte, debba guardarla. Se i social non possono più cambiare il mondo, può farlo l’arte? Un’esperienza cinematografica che cerca, attraverso tutti gli espedienti narrativi del documentario, di far vivere al pubblico la violenza e l’oppressione che accadono mentre è comodamente seduto al cinema, dimostra di avere ancora una forza travolgente. La telecamera che non si sposta, non fugge, ma costringe a un punto di vista passivo mentre i coloni attaccano, l’IDF assalta e distrugge, rende la stessa impotenza che provano gli oppressi.
No Other Land è più di un documentario. È un documento storico, un’opera d’arte e una testimonianza indispensabile di cui si parlerà per molti anni a venire. Attraverso un’estetica raffinata e una narrazione incisiva, ci costringe a guardare in faccia la realtà. Non offre risposte su come questo conflitto possa finire. Ma la collaborazione tra Basel e Yuval, e l’opera che hanno creato insieme, è già una speranza.
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