Blade Runner | Il futuro sul filo di un rasoio
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Blade Runner | Il futuro sul filo di un rasoio

Blade Runner | Il futuro sul filo di un rasoio

Postato il 24 Agosto, 2024

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117'

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Pochi film meritano il titolo di “visionario” quanto Blade Runner. Diretto da Ridley Scott (sulla scia del successo di Alien nel 1979), il film dipinge un futuro distopico di rara pregnanza. E le sue implicazioni, senza tempo ma anche contemporanee, lo hanno reso negli anni un classico imprescindibile.

Anno 2019. La Terra è sovrappopolata e afflitta da ogni tipo di inquinamento. Chi può fugge su altri pianeti, le cosiddette “colonie extramondo”, in cerca di una vita migliore. Per soddisfare il bisogno di forza lavoro delle colonie, la Tyrell Corporation, la più potente multinazionale tecnologica del pianeta, fornisce “replicanti”: androidi biomeccanici e senzienti, virtualmente uguali agli esseri umani – anche per quanto riguarda le emozioni. Come meccanismo di sicurezza (per gli esseri umani, s’intende) i replicanti sono dotati di ricordi artificiali e di un ciclo vitale di soli quattro anni.

Quattro di loro, guidati dal luciferino Roy Batty (Rutger Hauer), si ammutinano e fuggono a Los Angeles, per tentare di infiltrarsi nel quartier generale della Tyrell. Rick Deckard (Harrison Ford), un ex-“Blade Runner” – l’unità speciale incaricata di dare la caccia ai replicanti ribelli – viene quindi forzatamente richiamato in servizio. Il suo compito si rivela presto più difficile del previsto, e l’incontro con un malinconico prototipo di nome Rachael (Sean Young) lo porterà a mettere in discussione la sua umanità, da ogni punto di vista.

Un film troppo avanti per i suoi tempi

Oramai un cult, Blade Runner fu male accolto da pubblico e critica all’epoca della sua uscita. La critica Pauline Kael, ad esempio, lo definì un “thriller senza suspense” più interessato agli effetti visivi che alla costruzione narrativa.

Uno dei motivi del flop furono le modifiche apportata dai produttori per tentare di soddisfare gusti più mainstream. In particolare, la registrazione di voice over di Deckard (introdotte per ricapitolare i punti più sfuggenti della trama) e un finale troppo lieto che causa diverse incoerenze.

Un altro aspetto fu il cattivo tempismo. Il pubblico era stufo degli scenari post-apocalittici anni Settanta e non ancora pronto a guardare a un futuro così pessimistico e al tempo stesso così profetico come quello tipico della fantascienza anni Novanta. Nel 1982, inoltre, Steven Spielberg realizzò E.T. l’extra-terrestre. Il film presentava un’idea di fantascienza molto più rassicurante – inaugurata da Guerre stellari (1977) – che finì con l’infrangere i record di incassi in tutto il mondo alla faccia dell’ardita concorrenza. Anche La cosa di John Carpenter faticò al botteghino per questo motivo.

Ma come per ogni cult degno di questo nome, all’insuccesso seguì una lenta e viscerale rivalutazione. Nel 1991, Scott ebbe l’opportunità di lavorare a un primo director’s cut per ripristinare la sua visione di Blade Runner. Infine, nel 2007, dopo 25 anni di influenza sull’immaginario collettivo, arrivò un final cut del film. Scott ha raccontato di aver appeso la recensione di Kael sul muro del suo ufficio, dove rimane tuttora. Dopo tutto, il futuro è l’ultimo, definitivo critico.

Ispirazioni e fusione di generi

Liberamente tratto dal romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick, la sceneggiatura di Hampton Fancher e David Webb Peoples è una sintesi di cinema riflessivo e spettacolare. Le tematiche esistenziali ed ecologiche sono il frutto delle prime bozze di Fancher. Dalle riscritture di Peoples, imposte dalla produzione, provengono invece la trama high concept e la commistione di generi.

L’esecuzione di bersagli, uno dopo l’altro, in una serie di duelli, da parte di un consumato cacciatore di taglie: sono tutti elementi western agghindati in chiave futuristica (Peoples scriverà poi la sceneggiatura del film che, nel 1992, lancerà Clint Eastwood come regista, Gli spietati). Il tono introspettivo, la malinconia diffusa e i topoi di investigatore privato e dark lady (insieme ai suoi aspetti problematici) riconducono invece la trama fantascientifica al genere noir. Il risultato è un neo-noir nel senso più futuristico del termine. E Scott e il direttore della fotografia Jordan Cronenweth portarono questo nucleo alle estreme conseguenze.

La fotografia e la musica

In un gioco costante di luci e ombre, fumo e colori primari, il film forgia con cura un look quasi espressionista. Il collegamento tra questo stile e il noir è tutt’altro che casuale. Molti elementi stilistici dell’Espressionismo tedesco erano emigrati verso il genere noir insieme a registi antinazisti trasferitisi a Hollywood ai tempi del Reich, in particolare Fritz Lang. E di fatti, il suo classico di fantascienza espressionista Metropolis (1927) è uno dei principali riferimenti visivi del film. In questo senso, Blade Runner è una sorta di ritorno a casa, o di cavallo di ritorno.

Le musiche retro-futuristiche di Vangelis completa il quadro, fondendo blues e musica elettronica e incorporando melodie giapponesi e greche in una colonna sonora tipicamente hollywoodiana.

Il risultato finale è un tech-noir fuori dal tempo e dallo spazio. E quindi capace di raggiungere profondità e verità universali. È la bellezza paradossale del postmoderno. Le “copie della copia” diventano “miti del mito”. Il patchwork delle fonti più disparate (se ben fatto) le spoglia delle loro contingenze, finché non rimane altro che meraviglia distillata. Finché non rimane altro che pura epica:

Quando la scelta del già collaudato è limitata, si ha il film di maniera, di serie, o addirittura il Kitsch. Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha una architettura come la Sagrada Familia di Gaudi. Si ha la vertigine, si sfiora la genialità. […] Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. […] Qualcosa ha parlato al posto del regista. Il fenomeno è degno se non altro di venerazione.

“Casablanca o la rinascita degli dei” di Umberto Eco

Manifesto del cyberpunk

Con le sue peculiari visioni, Blade Runner fornisce un perfetto correlativo oggettivo della modernità, di quello che era (ed è) un nuovo mondo sempre più sventato. Sono visioni che, di conseguenza, definirono un trend molto influente nei decenni successivi alla sua comparsa. Blade Runner si è imposto come punto di riferimento – se non come manifesto – di un sottogenere unico, il più adatto a rappresentare la civiltà futura e i suoi disagi: il cyberpunk.

La serie Akira di Katsuhiro Ōtomo (1982-1990), il franchise di Ghost in the Shell ideato da Masamune Shirow (1988-2020), la saga di Matrix di Lana e Lilly Wachowski (1999-2003), persino Seven di David Fincher (1995) e i film di Batman diretti da Tim Burton e Joel Schumacher devono a Blade Runner gran parte della loro atmosfera dark, del loro cupo look and feel. Lo stesso Scott vi è tornato in molte delle sue opere successive. Dalla Tokyo illuminata al neon del film d’azione Black Rain (1989) alla Firenze violentemente caotica di Hannibal (2001), la marea di Blade Runner non si è ancora ritirata.

L’inconfondibile look del cyberpunk è evidente nei bizzarri costumi, nel make-up esagerato e, soprattutto, nelle monumentali scenografie, basate sugli schizzi del concept artist Syd Mead. Un design che glorifica la spazzatura in un altro mix di antico e moderno. Un design che contrappone appartamenti bui e disordinati alla metropoli sovraffollata, in una notte di pioggia perenne a causa dell’inquinamento, illuminata solo dalle luci al neon dei suoi smisurati grattacieli neogotici.

In un ambiente così alienante, tutto ciò che non è silenzio e solitudine sembra irrealistico. Si fa strada un cocktail di claustrofobia e agorafobia (che caratterizzava anche l’Alien di Scott). La lotta per la sopravvivenza è tutto quel che rimane, o almeno così sembra.

Everybody wants to ruin the world

Pauline Kael criticò il film per via di questa desolazione:

Siamo qui – a soli quarant’anni da oggi – in un’orribile baraccopoli elettronica, e Blade Runner non si chiede mai: “Com’è potuto succedere?”. Il film tratta questo futuro tetro e retrogrado come un dato di fatto – una conclusione scontata che non dobbiamo mettere in discussione. Il presupposto è che l’uomo sia ormai pienamente realizzato come devastatore della terra. I film di fantascienza del passato erano spesso utopici o ammonitori; questo film sembra indifferente, blasé e forse, come alcune persone del pubblico, un po’ compiaciuto da questa visione di un futuro medievale – soddisfatto in modo leggermente vendicativo. […] Blade Runner non coinvolge direttamente; costringe alla passività. […] Le persone che guardiamo sono così lontane da noi che potrebbero essere ombre di persone che non esistono.

Baby, the Rain Must Fall” di Pauline Kael – The New Yorker

Ma è proprio questo il punto. Nella maggior parte delle storie distopiche (tra cui anche Blade Runner 2049) i personaggi principali vogliono salvare o governare il mondo, o perlomeno affrontare il stato delle cose. In Blade Runner, l’apocalisse è data per scontata, quasi sovrappensiero. È un fatto come un altro, un fastidio con cui tutti possono convivere, come la pioggia senza fine. Tra le tante profezie del cyberpunk, questa è la più spaventosa e anche la più vicina alla (auto-)realizzazione.

Blade Runner non è più fantascienza. È un thriller contemporaneo.

Are we living in a Blade Runner world?” di David Barnett – BBC

Gli eventi della trama non hanno alcun effetto sull’ambiente circostante. Chi guarda ha quasi la sensazione che siano solo alcune delle tante vicende che si svolgono nella metropoli. Tuttavia, il potere evocativo di Blade Runner diventa tanto più forte quanto più il quadro si fa cupo. Il film prospera non solo nonostante questa vanità, ma proprio grazie ad essa. Rifiuta qualsiasi forma di ingenuità. Ma grazie a questo contrasto, lascia spazio a una più onesta forma di speranza.

Il partito dei replicanti

Se i replicanti sono abbastanza avanzati da sviluppare emozioni, e i loro creatori umani si dimostrano nient’altro che freddi calcolatori, il risultato è inevitabile: ribellione, per quanto disperata o violenta. Si insinua, sotterranea, una corrente politica. Dopo tutto, i replicanti sono schiavi messi contro ai loro padroni (e la loro arena è un mondo da cui tutte le persone bianche ed abili sembrano essere fuggite da tempo). Più la loro ribellione diventa disperata, più assume toni titanici, in pieno stile Paradiso perduto di John Milton.

Per descrivere la condizione dei replicanti, Roy Batty parafrasa un passo del poema America: Una profezia di William Blake:

Avvampando gli angeli caddero;
profondo il tuono riempì le loro rive;
bruciando con i roghi dell’Orco.

Roy Batty (Rutger Hauer)

In Matrimonio del Cielo e dell’Inferno, Blake notoriamente affermò, a proposito del Paradiso perduto, che John Milton era “del partito del diavolo senza saperlo”. Lo stesso vale per Blade Runner. Quello che a prima vista sembra un malfunzionamento della sceneggiatura – il fatto che il pubblico simpatizzi più per gli antagonisti che per l’eroe – diventa la sua carta vincente.

Schierandosi dalla parte dei replicanti ma raccontando la storia dal punto di vista umano, Blade Runner alza al massimo il tasso di ambiguità. E di conseguenza raggiunge profondità inedite, nella consapevolezza che dubbi e domande sono molto più importanti per le storie che posizioni chiare e risposte chiuse.

Correre sul filo di un rasoio

Si pone il problema di chi sia veramente (ed effettivamente) umano. I replicanti possono avere ricordi artificiali, e quindi identità artificiali, dal momento che esperienze passate e vite vissute sono alla base della percezione del Sé. Ma i loro desideri sono più umani dell’umano, per non dire troppo umani.

Diventa presto chiaro che sopravvivere non è sufficiente. Bisogna anche vivere una vita significativa. Ma se queste velleità di significato si rivelano fragili, forse la vera ricerca – per gli umani e per i replicanti – è quella di una pace interiore con cui riconciliarsi. Il monologo più famoso del film, pronunciato ancora una volta dall’uomo-macchina Roy Batty, dice tutto:

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi […] E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia… è tempo di morire.

Il monologo “lacrime nella pioggia”, scritto da Hauer stesso, che aveva anche avuto l’idea di citare Blake.

In un certo senso, il monologo si avvicina al concetto giapponese di Mono No Aware: la sensazione di distaccata consapevolezza della transitorietà di tutte le cose, malinconica e serena al contempo. Ed è una possibile risposta alla tensione esistenziale che Blade Runner manifesta fin dal suo titolo. “Correre la lama” sottintende vivere sul filo del rasoio, per brevità e vanità, sotto la pioggia metropolitana.

Il monologo di Batty è rivolto a Rick Deckard, il cacciatore di taglie che non condivide pienamente la crudeltà degli umani. E quindi, ovviamente, allo spettatore. Viene in mente la battuta finale di un altro cult. Nonostante le differenze radicali con Blade Runner, si tratta comunque di un principio per la fantascienza tutta:

Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi, e io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza, perché se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi.

Da Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991) di James Cameron.

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