Il giocattolo di Giuliano Montaldo | Le oscure ambizioni di un uomo medio
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Il giocattolo di Giuliano Montaldo | Le oscure ambizioni di un uomo medio

Il giocattolo di Giuliano Montaldo | Le oscure ambizioni di un uomo medio

Postato il 01 Marzo, 2024

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La maggior parte delle persone che comprano una pistola negli Stati Uniti lo fanno per sentirsi protetti, secondo i sondaggi federali. Ma quali sono le ragioni di chi si arma, oltre l’autodifesa? Nel 1979, il regista Giuliano Montaldo ha tentato di esplorare l’annosa questione nel suo film Il giocattolo.  

Montaldo non voleva solo raccontare gli Anni di piombo, periodo in cui l’Italia affrontava una recrudescenza di criminalità, contestazioni, conflitto armato e terrorismo. L’interpretazione di Nino Manfredi nel ruolo di Vittorio Barletta, insieme al vincitore del Nastro d’Argento Vittorio Mezzogiorno, hanno contribuito a creare un dramma psicologico incentrato su un uomo della classe media e la sua improvvisa ossessione per le armi.  

Il giocattolo esplora gli effetti che le armi hanno sulla personalità umana, soprattutto in relazione alla loro percezione come simboli di forza e mascolinità – una suggestione confermata anche da studi recenti. Il film descrive il fascino che possono suscitare, ma anche il potenziale devastante su una personalità fragile. 

Le origini di un pistolero

Vittorio Barletta (Nino Manfredi) è un contabile insoddisfatto. La relazione con la moglie Ada (Marlène Jobert) è avvolta in una routine piatta e noiosa. Il suo datore di lavoro, Nicola Griffo (Arnoldo Foà) lo sfrutta come prestanome per società fittizie e corriere per il trasporto di grandi somme di denaro. 

La situazione precipita quando Vittorio viene inavvertitamente coinvolto in una rapina al supermercato e subisce una ferita d’arma da fuoco alla gamba. A seguito dell’incidente diventa ossessionato dall’idea di dover difendere sé stesso e la moglie. La prima opportunità per acquisire dimestichezza con la pistola arriva quando Sauro (Vittorio Mezzogiorno), un poliziotto con cui ha fatto amicizia durante la riabilitazione, si offre di portarlo al poligono di tiro. Qui, Vittorio mostra di avere un talento naturale e inizia a fare pratica con l’arma da fuoco, nonostante le preoccupazioni di Ada e Sauro. Culla il sogno di diventare un brutale vigilante, senza rendersi conto che si sta infilando in un vortice senza uscita.  

Il giocattolo è la sola e unica collaborazione tra Montaldo e Manfredi: due grandi figure del cinema italiano che erano all’apice della loro carriera quando il film è uscito. Montaldo si è ritagliato un posto di rilievo come regista di polizieschi, come Ad ogni costo (1967) e Gli intoccabili (1969), e drammi storici, tra cui Sacco e Vanzetti (1971) e Gli occhiali d’oro (1989), basato sul romanzo di Giorgio Bassani. Manfredi all’epoca è un attore di Commedie all’italiana popolare e apprezzato. Dimostra grande versatilità, interpretando ruoli comici come Gli anni ruggenti (1962) e Café Express (1980) e personaggi drammatici più sfaccettati, come in C’eravamo tanto amati (1974) e Brutti, sporchi e cattivi (1976).

I giorni di paura

Anche se Il giocattolo segue la tipica struttura del thriller, è un film di denuncia sociale. Montaldo prende ispirazione da un episodio di cronaca del 1977: un gioielliere, spaventato da una finta rapina, spara e uccide un uomo. Storie simili erano comuni nei giornali dell’epoca, soprattutto a Milano, epicentro degli Anni di piombo.

Di questi tempi rischi la tua vita ogni minuto. Ha senso curare il tuo mal di testa? 

Vittorio Barletta (Nino Manfredi)

La fotografia di Ennio Guarnieri trasmette in modo efficace il continuo senso del pericolo. Sfrutta le passate collaborazioni con registi come Vittorio De Sica e Luigi Comencini per ritrarre una città che rispecchia pienamente il suo tempo. Milano appare in toni freddi e sbiaditi, in netto contrasto con l’immagine scintillante e internazionale di oggi. Nelle strade buie e desolate, lo spettatore percepisce l’ansia del protagonista e la minaccia costante di un nemico senza volto. 

La musica rende la narrazione ancora più incalzante; l’atmosfera più oscura. Ennio Morricone realizza una colonna sonora cupa, che alterna tracce lente e introspettive e un ampio ricorso al sintetizzatore con pezzi più orchestrati e rapidi. 

Ispirazioni americane e scuola italiana

L’atmosfera cupa de Il giocattolo prende ispirazione dal cinema hollywoodiano degli anni Settanta. S’intuisce l’influenza di Taxi Driver, di Martin Scorsese, uscito tre anni prima. Entrambi i film fotografano un ambiente sociale violento, abbandonato in uno stato di anarchia che confina ai margini chi è più vulnerabile e reietto. Todd Philips riattualizza gli stessi temi nel suo Joker, nel 2019: il racconto della vendetta cieca di un sociopatico.

Dall’altra parte, Montaldo attinge molti aspetti stilistici dallo spaghetti western. La sua esperienza con due maestri del genere è diretta: è stato produttore esecutivo di Sergio Leone nella Trilogia del dollaro, e di Sergio Donati, sceneggiatore che ha collaborato con Leone nella Trilogia del tempo. La loro eredità è evidente soprattutto nel fulcro visivo e narrativo dell’intera azione, focalizzato sulla pistola. Quell’arma che nelle mani del “pistolero” Clint Eastwood doveva apparire come un oggetto affascinante, dalle implicazioni inquietanti. In sostanza, “un giocattolo pericoloso”. 

“Stai parlando con me?”

La pistola catalizza la trasformazione, o meglio, la caduta libera del protagonista.

Manfredi, nel ruolo di Vittorio, è il vero punto di riferimento del film. Riesce a infondere il dramma di sfumature umoristiche: è la cifra del suo stile di recitazione. Ritrae – come aveva fatto ne L’impiegato (1960) – un uomo comune e mediocre, che ricorda il Tertulliano ne Il doppio di José Saramago. Un personaggio prigioniero di una routine da colletto bianco, che sfoga la sua infelicità infierendo sulla moglie.   

Nino Manfredi in a scene from the movie
Attore Nino Manfredi le L’Impiegato (1960). Image courtesy of Gianni Puccini and Carlo Di Palma / Wikimedia Commons

Quando Vittorio scopre che con le armi se la cava, ha l’illusione di poter dare una svolta alla sua grigia esistenza. Impugnando la pistola, si immagina come un pistolero dei suoi western preferiti. Scimmiottando questi vigilanti, s’illude di potersi ritagliare un ruolo rispettato nella società, come il suo amico Sauro. Quando Vittorio inizia a farsi conoscere al poligono, esce dall’anonimato. Attira l’attenzione dei media e della figlia del suo capo.

La connotazione sociale è anche quella di un modello di mascolinità codificato e accettato passivamente ancora oggi come un’eredità romantica – un aspetto raccontato anche nella serie You.

Alla fine, quello che sembra un giocattolo si rivela sempre come strumento di morte. E ciò che più resta nella mente dello spettatore è l’ammonizione di Sauro:

Però se tu decidi di tenerla in tasca, ebbene, tu un cristiano, prima o dopo, lo puoi anche uccidere. Ma non è quando spari che l’ammazzi. Vittò, capiscimi bene! Quel cristiano, chiunque sia, è già morto nel momento stesso che tu hai deciso di girare armato, mi spiego?

Sauro (Vittorio Mezzogiorno)

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