Taxi Driver | L'oscura notte della psiche
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Taxi Driver è una tempesta cinematografica perfetta. Una delle opere simbolo della New Hollywood, alla sua uscita colse perfettamente la disillusione dell’America degli anni ’70 nei confronti delle istituzioni dopo la Guerra del Vietnam e lo Scandalo Watergate. Rilanciò inoltre l’esistenzialismo nel cinema – la citazione “l’inferno sono gli altri”, tratta dall’opera teatrale A porte chiuse di Jean-Paul Sartre, si adatta al film meglio di qualsiasi frase di lancio. L’eredità di questa rappresentazione del lato più oscuro della psiche (di un uomo-maschio) si spinge ben oltre le sale cinematografiche, ma un tale impatto sull’immaginario collettivo ha anche sollevato questioni ancora da risolvere.
Travis Bickle (Robert De Niro), giovane reduce del Vietnam, trova lavoro come tassista notturno a New York per cercare di riempire la sua vita insonne e vuota. Ai ferri corti con la metropoli decadente fuori dal suo taxi e lontano mille miglia dai passeggeri al suo interno, Travis vedrà la sua misantropia e la sua solitudine peggiorare drasticamente sotto l’influsso della sua professione. E l’incontro con Betsy (Cybill Sheperd), un’attivista politica che non riesce a conquistare, e Iris (Jodie Foster), una prostituta adolescente che è incapace di salvare, comprometterà la sua sanità mentale portandolo sempre più vicino alla violenza.
Questioni di metodo
Taxi Driver consolidò la reputazione di tre nomi allora emergenti del cinema americano: Martin Scorsese, Robert De Niro e Paul Schrader. Il loro successo fu possibile perché Taxi Driver era perfettamente in linea con l’era della New Hollywood in termini di method acting, omaggio al cinema classico, e conformità alla politica degli autori. De Niro trascorse del tempo con veri veterani per prepararsi alla sua interpretazione incentrata sul disturbo da stress post-traumatico. La colonna sonora in salsa jazz, essenziale per l’atmosfera noir del film, fu affidata a Bernard Hermann, compositore di fiducia di Orson Welles e Alfred Hitchcock. E quando si trattò di dimostrare personalità, libertà e padronanza creative, il film si dimostrò all’altezza degli standard del nuovo cinema europeo.
Dato il soggetto prettamente psicologico, Scorsese abbracciò la sua convinzione, di stampo espressionista, secondo cui la visione di un film è un’esperienza vicina a uno stato alterato di coscienza, e modellò lo stile del film di conseguenza. E di fronte a un budget ridotto, realizzò quest’idea di cinema seguendo l’esempio della Nouvelle Vague. Vale a dire, girando in esterni e infrangendo alcune delle più rigide regole della grammatica cinematografica hollywoodiana allo scopo di immergere chi guarda nel mondo del protagonista e nel suo stato mentale in degrado.
E se Schrader guardò senza dubbio ai classici americani (in particolare a Sentieri selvaggi (1956] di John Ford) nel suo ritratto di un autoproclamato “uomo solo di Dio” fu profondamente influenzato da Il diario di un curato di campagna (1951) e Diario di un ladro (1959) di Robert Bresson; oltre che dalle opere di autori esistenzialisti del calibro di Fëdor Dostoevskij, Louis-Ferdinand Céline, Albert Camus e Sartre.
Ma soprattutto, Schrader si ispirò alle sue notti più buie di depressione e isolamento a New York. Un tale coinvolgimento da parte di uno sceneggiatore non aveva precedenti per un film di Hollywood, ma valse al film la Palma d’oro al 29° Festival di Cannes. E poi, un posto nella storia del cinema mondiale.
Memorie dal sottosuolo
Si è detto molto su come Travis Bickle incarni la solitudine metropolitana. A ben vedere però, la radice del suo male non è sociale, ma esistenziale. In preda al disgusto per se stesso, Travis è a caccia di uno scopo, di un significato per una vita fondamentalmente priva di senso, di un’identità. La scelta di intitolare il film proprio alla sua alienante professione è quasi una beffa della sua condizione.
Tuttavia, a differenza di altri antieroi esistenziali, di altri “uomini del sottosuolo”, Travis non sembra in grado di capire appieno il male che lo affligge. Il fatto che raramente menzioni il trauma della guerra del Vietnam nelle pagine del suo diario (lette in voce fuori campo) ne è la prova. Così, invece di sprofondare nella paralisi dell’autoanalisi, egli proietta la sua frustrazione sul sottobosco cittadino sotto forma di misantropia (e discriminazione).
La violenza che ne consegue non è il mero “sfogo psichico” (come lo definisce la critica Pauline Kael) di un uomo privo di introspezione. È una performance. L’atto con cui un guerriero rimasto senza guerra può annunciare, a se stesso e al mondo, una nuova gloriosa causa per cui uccidere e morire, una ritrovata lotta, un qualche valore. Più che la solitudine, Travis Bickle incarna, in parte, quello che Umberto Eco ha definito “fascismo eterno”.
Nella scena più celebre del film, il protagonista affronta un avversario immaginario guardandosi allo specchio. La battuta da macho “Ma dici a me?” è ciò che è rimasto impresso nella memoria collettiva. L’odio (dell’altro e di sé), da cui essa deriva, è ciò che andrebbe ricordato.
Viaggio al termine della notte
Non voglio essere un prodotto del mio ambiente. Voglio che il mio ambiente sia un mio prodotto.
Frase d’apertura di The Departed – Il bene e il male (2006), diretto da Martin Scorsese
A metà film, Scorsese fa un inquietante cameo nella parte di uno squilibrato che si fa portare da Travis a casa dell’amante della moglie, un uomo afroamericano, per poi ascoltare mentre racconta il suo piano di ucciderli entrambi sul posto. La sua arma: una .44 Magnum; la stessa usata da Clint Eastwood in Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (1971) di Don Siegel, il controverso successo al botteghino che generò il filone dei vigliante nei thriller d’azione del periodo. Quando uscì Taxi Driver, il sentore che i media avessero giocato un ruolo nella fantasia omicida del passeggero era piuttosto chiaro.
In un certo senso, la scena racchiude in sé sia il contesto d’origine del film sia il fascino problematico che esso esercitò negli anni successivi. Taxi Driver fu ispirato da un attentato a un candidato alla presidenza e finì con l’ispirare a sua volta un altro attentato.
Nel 1981, John Hinckley Jr. tentò di assassinare l’allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Il vero obiettivo era fare colpo su Jodie Foster, da cui era ossessionato per via della sua interpretazione nel film. L’avvocato di Hinckley mostrò poi il film in tribunale per sostenere l’infermità mentale del suo cliente, vincendo la causa. Raramente il legame tra violenza e cinema è stato così stretto (viene in mente anche la recente infatuazione della sottocultura incel per il Joker di Todd Philips, fortemente influenzato da Taxi Driver e prodotto dallo stesso Scorsese).
Sebbene Taxi Driver non esalti attivamente la violenza, il razzismo o la misoginia, resta da chiedersi se gli autori del film si siano in qualche modo lasciati sedurre dalla catarsi violenta del protagonista, e se tacitamente sperino che il pubblico faccia lo stesso. Schrader afferma di aver sempre visto il progetto come una forma di auto-terapia. Scorsese sostiene di aver voluto che il film agisse da esorcismo per i suoi più inconfessabili sentimenti e per quelli di chi guarda. Il finale del film insinua che se la notte più buia della psiche del tassista vedrà mai una fine è ancora oggetto di dibattito.
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