David Lynch è morto ma il suo cinema non morirà mai

Postato il 26 Gennaio, 2025

David Lynch è morto il 15 gennaio 2025, all’età di 78 anni. Fumatore incallito, nell’estate precedente aveva rivelato di soffrire di enfisema.

Lynch è un’icona dell’arte cinematografica e della narrazione paragonabile a Kafka o Fellini. Come loro, è stato uno dei rari profeti dionisiaci in grado di espandere gli orizzonti della percezione e dell’espressione artistica oltre i più disparati confini del linguaggio e dell’immaginazione.

Questi artisti, unici nel loro genere, sono visionari che incidono il loro nome anche nel dizionario della cultura, diventando aggettivi: kafkiano, felliniano, lynchiano. Non sono semplici autori o registi, ma creatori di mondi, che fanno da apripista per quelli a venire. Nel mondo di oggi, la loro arte è in pericolo. L’approccio visionario, radicale e perturbante che essi tramandano è minacciato dall’inarrestabile standardizzazione dei contenuti richiesta dalle piattaforme streaming. L’effetto più evidente è un appiattimento delle produzioni verso una sterile omologazione che le rende innocue e inerti, soffocando creatività e sperimentazione.

Visionario tra i visionari

Recuperare i film di David Lynch oggi, insieme a suoi spiriti affini come Godard, Cassavetes, Lars von Trier, Apichatpong Weerasethakul, Malick, Sokurov, e Reygadas, equivale a dotarsi di un potente antidoto contro un panorama cinematografico che ormai oscilla, in generale, tra due estremi: da un lato, noiosi e pretenziosi film low-budget confezionati per i festival – seppur con eccezioni, come il profondo e complesso complesso Anatomia di una caduta – dall’altro, roboanti baracconi supereroistici, ingegnerizzati per accontentare tutti e anestetizzare le masse.

L’avanguardia della scrittura cinematografica sembra aver traslocato in alcune serie thriller e crime – True Detective Stagione 1, Fargo Stagioni 2 e 5, Severance, The Night Of, Better Call Saul e Breaking Bad – e in altre aree del mondo, come in Asia. Il cinema coreano disegna una nuova frontiera di ibridazione tra generi e stili sotto la guida di Bong Joon-ho e Park Chan-wook. Il Giappone continua a meravigliare con l’inarrivabile genio di Hayao Miyazaki, la sensibilità poeetica di Hirokazu Kore-eda, e il talento stupefacente di Ryusuke Hamaguchi.

Dall’altra parte del mondo, il cinema occidentale arranca. L’Europa si deprime tra drammi sociali e realismo più o meno magico. L’Italia resta impantanata nella nostalgia del suo cinema passato, tra ruralismo neorealista, revival crime e commedie demenziali.

Negli Stati Uniti, A24 è tra i pochi studi che scelgono di coltivare l’originalità, producendo registi come Ari Aster, Alex Garland, David Lowery e il loro coraggio di sfidare questa tendenza all’omologazione. David Lynch, che non è più riuscito a realizzare un lungometraggio dopo il criptico Inland Empire (2006), diventa simbolo di un tempo in cui il cinema osava essere complesso ed enigmatico come la vita stessa.

L’eredità lynchiana

I film di Lynch trascendono la narrazione tradizionale: riflettono e interrogano sui desideri e i tormenti dell’animo umano. Invocano la tradizione cinematografica di Tarkovsky, Buñuel, Parajanov, e Dreyer, artisti il cui obiettivo non era indottrinare, ma dare forma e corpo all’ineffabile. Persino Dune, nella sua imperfezione, restituisce un’aura di esoterismo e misticismo che la versione di Villeneuve, più solida e strutturata, evita accuratamente, come nella scena del navigatore della Gilda – disegnato da Carlo Rambaldi – che nella versione di Lynch anticipa l’inquietudine della fantascienza contemporanea che il compianto critico Mark Fisher avrebbe definito weird e eeire, territori in cui Villeneuve non ha per il momento osato addentrarsi.

L’opera di Lynch rappresenta una rivoluzione contro la banale dimensione fisica della vita: un invito alla trascendenza, un rifiuto per qualunue compiacimento o logica di mercato. Nonostante ciò, il suo lavoro non è completamente ermetico, ma trasuda intensità emotiva, e talvolta perfino empatia. I suoi Weather Reports e Interview Project, meno noti, rivelano la profonda umanità e iornia di Lynch, mentre la sua filmografia rappresenta un riflesso onirico della psiche collettiva. Un’arte che non rischia e non sostiene sperimentazioni scomode, proteggendole dalle logiche ciniche del mercato e dal didascalismo militante del politicamente corretto, priva l’umanità della capacità di sognare, interrogarsi, trascendere o perlomento affrontare le contraddizioni dell’esistenza.

La logica del sogno e l’alchimia narrativa nel cinema di Lynch

Sciamano e demiurgo di sogni e incubi, da Eraserhead – La mente che cancella, a Twin Peaks e Mulholland Drive, Lynch compone un suo mosaico originale di standard ricorrenti, che spaziano tra il bizzarro e il sublime. Nelle sue storie, il subconscio è in tumulto, il mondo sensibile alterato da nuove possibilità percettive, e persino le identità dei personaggi trasfigurate oltre i pochi, inviolabili taboo della narrazione. Un esempio di violazione dell’identità si trova in Lost Highway, dove uno dei personaggi si trasforma inspiegabilmente in un altro, a metà del film. Le opere di Lynch diventano così dei portali, in grado di farci sognare a occhi aperti. Sogni, o più spesso incubi, in cui la logica soccombe per lasciare spazio a emozioni e analogie visive. Il cinema diventa manifestazione dell’impossibile e dell’indicibile, di immagini stroboscopiche e disturbanti che incarnano paure primordiali.

The Straight Story, all’interno della labirintica filmografia di Lynch, resta il suo film più lineare, umanista, poetico e profondo. Spogliato dei consueti tratti destabilizzanti cari al regista, racconta la semplice storia di un uomo anziano che intraprende un ultimo viaggio a bordo di un tagliaerbe, per riconciliarsi con il fratello morente. Nella sua insistita lentezza e nel tono scarno e pastorale, Lynch rivela un livello di ambiguità e mistero inediti. La sua genialità emerge proprio grazie alla struttura convenzionale in tre atti a episodi che utilizza, a dimostrazione del fatto che anche lentezza e linearità, se interpretate dallo sguardo di Lynch, possono covare sensazioni weird and eeire: strane e inquietanti.

Un Eden disturbante e un futuro luminoso

Dal punto di vista tematico, i film di Lynch indagano la dissonanza del mondo. Come in Blue Velvet, dove l’apparenza edulcorata della cultura americana degli anni ’50 nasconde violenza, disperazione e orrore. L’America di Lynch è un Eden disturbante fatto di ombre e luci al neon. I personaggi femminili sono il fulcro di trame frammentate, in un dualismo che rimanda a Vertigo di Hitchcock, per poi estendersi a indagini metafisiche su identità e realtà.

Andando oltre il cinema, il dominio creativo di Lynch si estende a musica, pittura e design. Le sue atmosfere sonore e il suo electropop avanguardistico rispecchiano la natura psichedelica dei suoi film. La sua arte è pura violenza visiva, che spesso si manifesta con minacciose sfumature di nero e luci stroboscopiche. Che sia nella composizione di colonne sonore inquietanti in collaborazione con Angelo Badalamenti o nel progettare arredamento surrealista, Lynch coniuga la dimensione tattile con il trascendente.

Il messaggio ultimo di David Lynch non risiede solo nel ricordarci che bellezza e terrore coesistono. Ci dimostra che il mondo, così come raccontato nei suoi film, è un groviglio inafferrabile, spaventoso e misterioso allo stesso tempo. Confrontarsi con Lynch vuol dire scrutare nell’abisso dell’animo umano e trovarvisi riflessi e rifratti, come in uno specchio infranto dalla paura stessa di guardare. La sua arte incita lo spettatore a sfidare la propria pazienza, le proprie percezioni e paure, salpando verso acque inesplorate, per giungere a una rivelazione intima e destabilizzante: siamo tutti esseri fragili, persi nel caos. Eppure dobbiamo indossare questi occhiali scuri, se vogliamo cogliere quanto potrebbe essere luminoso il futuro.

[Traduzione di Francesca De Palo]

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