DAHMER | I fallimenti sistemici e la complessità del nostro Zeitgeist
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Una parte significativa della serialità contemporanea offre uno spaccato sul comportamento e sul funzionamento delle forme e dei contenuti delle narrazioni televisive – e non solo – dei nostri tempi. Un trend specifico che ha a che fare proprio con quella che può essere identificata come la messa in scena dell’osceno. Il termine, in questo contesto, rimanda a una delle origini della parola “osceno” proposte dalla scienza etimologica, ovvero ciò che è “fuori scena”.
L’arte e i suoi universi narrativi hanno sempre manifestato un rapporto di interdipendenza con la realtà. In un’ottica più sociologica, il contenuto delle serie TV può essere osservato come uno specchio che riflette lo Zeitgeist (“spirito dei tempi”).
Partendo da questa premessa, Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer (o semplicemente DAHMER) – la prima stagione di Monster, la serie antologica true crime di Netflix creata dall’affiatato duo artistico composto da Ryan Murphy e Ian Brennan – può raccontarci molto di più delle vicende reali legate a uno dei più efferati serial killer d’America. Con l’enorme ondata di dibattiti che ha sollevato, polarizzando critica e pubblico, e con i suoi impressionanti record di visualizzazioni, DAHMER testimonia non solo come realtà e fiction si contaminino a vicenda, ma anche come il genere true crime sia diventato oggi uno dei più apprezzati e popolari, nonostante le questioni di carattere etico legate a questo genere. La serie offre infine una prospettiva antropologica su come i processi psicologici che i drammi true crime innescano nel pubblico si stiano evolvendo per riflettere meglio il nostro mondo.
- Il cannibale di Milwaukee
- Il mostro e l’umano: oltre il binarismo
- Il punto di vista di DAHMER
- Un’esperienza immersiva: Ridotto al silenzio
- Canto delle balene
- Proiezione ed esorcismo
- Il perché del successo di DAHMER
- Non esistono risposte, ma solo domande
- Altri mostri in arrivo…
Il cannibale di Milwaukee
Milwaukee, Wisconsin. DAHMER racconta la storia del serial killer Jeffrey Dahmer (Evan Peters), “il cannibale di Milwaukee” o “il mostro di Milwaukee”. Dall’infanzia e l’adolescenza con i genitori Lionel (Richard Jenkins) e Joyce (Penelope Ann Miller) alla convivenza con la nonna paterna Catherine (Michael Learned), dall’apice della sua attività omicida mentre viveva da solo nel suo appartamento alle vane suppliche della vicina di casa Glenda Cleveland (Niecy Nash) per ottenere l’aiuto della polizia, fino alla sua cattura, al processo e alla morte in prigione. Tra il 1978 e il 1991, Dahmer uccise brutalmente diciassette giovani uomini. Per la maggior parte erano neri, provenienti da varie minoranze etniche e membri della comunità LGBTQ+. Gli omicidi comprendevano necrofilia, cannibalismo, occultamento e conservazione permanente di parti del corpo. Dahmer fu condannato a sedici ergastoli e fu picchiato a morte da un compagno di detenzione nel 1994.
Stando dalla parte delle vittime per tutta la narrazione e mettendo in primo piano le loro storie, la serie cerca di far luce sul fallimento istituzionale della polizia, sull’omofobia e sul razzismo sistemico come cause principali della condotta disinvolta e impunita di Dahmer, rimasta sotto gli occhi di tutti per più di un decennio. Non è finita qui. DAHMER mira a elevarsi e a fornire una visione a volo d’uccello di ciò che è realmente accaduto, prendendosi il tempo di scavare nella dura realtà per riflettere e chiedersi in modo analitico e razionale se le cose sarebbero potute andare diversamente.
Il mostro e l’umano: oltre il binarismo
Babe, I love you so
KC & The Sunshine Band – Please Don’t Go
I want you to know
That I’m gonna miss your love
The minute you walk out that door
Così recita l’iconica love ballad del 1979 dei KC and the Sunshine Band. Un appello all’amore e alle seconde possibilità che la serie utilizza nel trailer e in un episodio accanto alle immagini della porta dell’appartamento di Dahmer che si chiude con le vittime al suo interno, dando al testo nuovi significati. È uno dei tanti elementi che dimostrano come DAHMER operi su più livelli. Un esempio di come lo show si sforzi di raggiungere un livello più profondo di storytelling e analisi. In effetti, a un esame più attento, uno degli aspetti più affascinanti della serie è la sua struttura stratificata che sfrutta e gioca con il sistema binario “umano/mostro” e poi cerca di trascendere questo stesso binarismo. E lo fa fin dalla scelta del titolo: Monster.
In questo senso, DAHMER mostra allo spettatore un ritratto di Jeffrey Dahmer che da un lato avvalora il termine “mostro” distorcendo ed enfatizzando fatti reali. Ciò accade ripetutamente nel corso dell’arco narrativo. Come nella scena in cui Dahmer a torso nudo assaggia sangue umano davanti a uno specchio. La narrazione sembra voler rassicurare chi guarda dicendo: “Tu sei dall’altra parte. Questo è un mostro. Tu non lo sei”.
Il punto di vista di DAHMER
Per contro, il modo in cui la serie dà in pasto allo spettatore la psiche di Dahmer attraverso la dissezione della sua infanzia e delle sue relazioni sembra spingere la rappresentazione verso il termine “umano”. In questo caso, la narrazione sembra confessare al pubblico spettatore: “State assistendo alla storia di un uomo che soffre di molte malattie ignorate. Un bambino con una madre incapace di affettuosità, in lotta con problemi di salute mentale. Un adolescente con un padre distante, la cui unica presenza è stata quando ha insegnato al figlio dalla mente spugnosa a sezionare animali morti. Infine, un adulto alcolizzato che non ha mai appreso i codici per relazionarsi con il prossimo ed è sempre stato accompagnato da una persistente paura dell’abbandono”.
C’è di più. Focalizzandosi sulla denuncia del razzismo sistemico e dell’omofobia, Jeffrey Dahmer si mostra anche in un’altra incarnazione. Un uomo bianco, parte di una categoria normalizzata e privilegiata, e un uomo gay, parte di una comunità oppressa ed emarginata.
Alla fine, DAHMER presenta un ritratto autentico e sfaccettato del suo protagonista. Ma una cosa è certa. La serie si mantiene sempre a distanza e non cede mai alla glorificazione o alla mitizzazione di Dahmer. Se mai si prende il tempo di esaminare l’ondata di fama che ha travolto Dahmer ai tempi.
È stato complesso essere una persona che in superficie sembrava così normale ma che sottopelle aveva questo mondo che teneva nascosto a tutti. Quindi avevamo una sola regola dataci da Ryan [Murphy], che la vicenda non sarebbe mai stata raccontata dal punto di vista di Dahmer. In quanto spettatore, non puoi davvero simpatizzare con lui. Non puoi entrare nella sua pelle, puoi soprattutto guardarlo, sai, dall’esterno. […] La storia di Jeffrey Dahmer è molto più grande di lui.
Evan Peters discute il suo personaggio con Netflix
Un’esperienza immersiva: Ridotto al silenzio
In tutta la serie, il sesto episodio, “Ridotto al silenzio“, spicca senza dubbio sugli altri. Scritto da David McMillan e Janet Mock (Pose, Hollywood) e diretto da Paris Barclay, è un eccezionale esempio di Black storytelling e una vivida dimostrazione dell’uso del linguaggio cinematografico/televisivo. L’episodio ruota interamente attorno al personaggio di Tony Hughes (interpretato dall’attore Rodney Burford, parzialmente sordo e dotato di impianto cocleare), un nero sordo che venne ucciso da Dahmer nel 1991. L’episodio conferma in modo eclatante gli sforzi di DAHMER di mantenere la vittima al centro della narrazione, oltre a sfruttare abilmente il mezzo per mettere Tony e il suo sguardo sotto i riflettori.
“Ridotto al silenzio” si svolge in gran parte in assenza di suono o con un rumore di fondo debole e indistinto. Tony, la sua famiglia e i suoi amici parlano nel linguaggio dei segni. Inoltre, in molte scene, il ritmo rallenta per permettere a Tony di scrivere i suoi pensieri nel piccolo taccuino che porta con sé per comunicare con gli altri personaggi (e con il pubblico). Questo consente a chi guarda di avere una visione immersiva e intima del personaggio. Il pubblico si avvicina ancora di più alla vita quotidiana di Tony, si mette nei suoi panni e penetra nel suo mondo interiore attraverso la sua lente.
Abbiamo cercato di valorizzare e abbracciare Tony. Abbiamo cercato di dargli una voce. Ci siamo sforzati di fare del nostro meglio per far sì che il personaggio potesse risuonare con gli spettatori. Sembra che ciò sia avvenuto. Sono davvero orgoglioso di quello che abbiamo fatto. Non solo per Tony, ma anche per la comunità dei sordi. Questo era il mio mantra. Vogliamo che queste vittime non vengano dimenticate.
Il regista Paris Barclay discute dell’episodio 6 di Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer con Variety (traduzione a cura dell’autore).
Canto delle balene
Il silenzio lascia spazio all’atmosfera tetra, angosciante, dolorosa e ossessionante creata dalla soundtrack composta ed eseguita dagli australiani Nick Cave e Warren Ellis. A cominciare dall’inquietante canto delle balene che la serie incorpora persino nella narrazione (Dahmer lo ascolta nella sua cella per conciliare il sonno). Questi suoni così caratteristici diventano un vero e proprio leitmotiv che accompagna la camminata lenta e il modo di parlare quasi flemmatico di Dahmer. Ma anche una sorta di rituale che esprime musicalmente il tentativo di voler discendere negli abissi inesplorati e oscuri dell’essere umano.
Tutto sembra assumere un’atmosfera labirintica e spettrale carica di ansia (Oily Tadpoles). Dalla parte vocale al pianoforte (New Job, No More Free Rides), al violino (Death And Baptism), al synth e al flauto, ogni elemento pare voler allungare e angustiare il corridoio che conduce all’uscita dell’appartamento del mostro. E se i ritmi serrati, claustrofobici, quasi affannosi di Tourniquet Knot intensificano la fuga, il lento procedere degli End Credits chiude il cerchio e rintana per sempre il demone nel sottosuolo.
Io e Nick ci sediamo in una stanza e iniziamo a suonare. È così che abbiamo sempre lavorato storicamente, sia per le colonne sonore dei film sia per gli album dei Bad Seeds. Creiamo una sorta di spazio meditativo in cui il suono dirige le scelte fatte. Improvvisiamo molto, cercando gli incidenti che si verificano serendipicamente quando si affiancano i risultati all’immagine. Ascoltiamo attentamente le indicazioni che ci vengono date e accettiamo volentieri consigli. L’intero team è stato fantastico e professionale. La fiducia nella creatività determina una grande differenza durante il processo.
Warren Ellis in un’intervista con Variety (traduzione a cura dell’autore)
Proiezione ed esorcismo
«Anche nei film, come Star Wars, mi sono sempre piaciuti di più i cattivi.»
«Beh, anche a me. I cattivi sono scritti meglio.»
Dal dialogo tra Jeffrey Dahmer (Evan Peters) e il cappellano Adams (Chris Greene), episodio 10: “Dio del perdono, Dio vendicatore”
Il filosofo e sociologo francese Edgar Morin, nel suo celebre saggio sociologico-antropologico del 1962 sull’immaginario collettivo e la cultura di massa, Lo spirito del tempo (L’esprit du temps. Essai sur la culture de masse), introdusse i concetti di “proiezione” e “identificazione“: due transfer psichici che assicurano la partecipazione estetica agli universi immaginari.
Secondo Morin, l’universo immaginario prende vita per lo spettatore, che a sua volta si proietta nei personaggi e/o nelle situazioni e si identifica con loro. Attraverso la proiezione, il pubblico si proietta al di fuori di se stesso, liberandosi di tutto ciò che si nasconde nelle profondità dell’io. In questo senso, la proiezione può assumere la natura di esorcismo. Esorcizzare il male, il terrore, ciò che di dannoso e oscuro si cela in se stessi, le proprie paure, le ansie, i bisogni insoddisfatti e così via.
Seguendo questo fil rouge, e cercando di dipanare la matassa che è DAHMER, c’è probabilmente una ragione più ampia per il successo della serie. Infatti, se analizzata sotto questa luce, DAHMER può essere osservata come una vera e propria cassa di risonanza delle ombre del pubblico contemporaneo: le sue paure, i suoi terrori e le sue ansie più intime. Attraverso la serie, lo spettatore può esorcizzare il malessere, la paura, il pericolo e l’ansia nei confronti di se stesso, del prossimo e del mondo in cui viviamo.
Il perché del successo di DAHMER
In conclusione, per tornare all’introduzione, il pubblico che DAHMER ha attirato in così poco tempo può essere inteso come una dimostrazione dell’emergere di una narrazione più complessa, sfaccettata e anche consapevole, che permette di riflettere sul presente del mondo occidentale e sullo spirito del nostro tempo – e di innescare nuovi processi di identificazione e proiezione.
Forse, come suggerisce Jarryd Bartle, ricercatore, consulente e professore associato di giustizia penale presso la RMIT University, in un articolo di Hugh Montgomery per la BBC:
C’è un’istintiva curiosità morbosa che spinge le persone a guardare uno show di questo tipo che è senza tempo. È una caratteristica ben documentata degli esseri umani nel corso della storia. E penso che alcune delle critiche che ho visto alla serie su Dahmer siano molto veloci nel considerarla come un impulso corruttivo o negativo, mentre io la vedo come un impulso naturale… Mi disturberebbe di più se ci fosse una sorta di regime morale che dicesse “la gente non deve sapere di queste cose, la gente non deve sentire parlare di crimini eclatanti”. Per me questo è un impulso sociale ancora più controproducente.
Allo stesso modo, chi guarda può condannare un’opera come non etica, ma non è detto che questo le/gli impedisca di guardarla lo stesso: è la natura volubile del comportamento umano.
“Monster: Jeffrey Dahmer: Did TV go too far in 2022?” by Hugh Montgomery – BBC (traduzione a cura dell’autore)
Non esistono risposte, ma solo domande
Senza ombra di dubbio, quando si tratta di true crime drama, un’ampia fetta di pubblico preferisce sempre evitare le drammatizzazioni di questi criminali, lasciando le loro gesta nel passato in segno di doveroso rispetto. In effetti, sin dalla sua uscita, DAHMER è stato al centro di molti accesi dibattiti (anche all’interno della troupe). Persino le famiglie delle vittime di Dahmer hanno replicato, accusando e criticando Netflix per aver riesumato una figura che avrebbe dovuto essere lasciata nel dimenticatoio, capitalizzando il trauma che ha colpito le loro vite e continuando a puntare i riflettori su un serial killer che ancora oggi continua a ossessionare la cultura popolare.
Non ho guardato tutta la serie. Non ho bisogno di guardarlo. L’ho vissuta. So esattamente cosa è successo.
Rita Isbell, sorella di Errol Lindsey, una delle vittime di Dahmer, discute della serie in un saggio pubblicato su Insider (traduzione a cura dell’autore)
Naturalmente, nessuno è in grado di rispondere a tutto questo dolore. Ciò rende ancora più difficile discutere e analizzare una serie tanto controversa. Una cosa è certa: DAHMER solleva molte domande su quello che guardiamo e su chi siamo. Per la maggior parte, si tratta di domande scomode. Dopo tutto, il compito dell’arte è sempre stato quello di sollevare domande piuttosto che fornire risposte.
Altri mostri in arrivo…
Concepita in origine come una serie limitata, Netflix ha annunciato di aver ampliato il franchise di Monster con altre due stagioni, facendone una serie antologica.
All’80ª edizione dei Golden Globe, Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer ha ricevuto quattro nomination: Miglior miniserie, Miglior attore per Evan Peters, Miglior attrice non protagonista per Niecy Nash e Miglior attore non protagonista per Richard Jenkins.
Evan Peters ha vinto il premio come miglior attore. Durante il suo discorso di ringraziamento, ha dichiarato: “Voglio ringraziare tutti coloro che hanno seguito questa serie. È stata una serie difficile da realizzare, difficile da guardare. Ma spero sinceramente che ne sia uscito qualcosa di buono.”
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