Ridley Scott 85

Ridley Scott 85 | L'ultimo artigiano del cinema

Ridley Scott 85 | L'ultimo artigiano del cinema

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Ridley Scott 85

Ridley Scott è uno degli ultimi, veri artigiani del cinema degli scorsi quarant’anni. Sebbene la sua carriera abbia attraversato i generi più disparati (fantascienza, thriller, dramma storico, road movie e persino fantasy) senza mai scrivere una sceneggiatura, i suoi film hanno sempre mantenuto un look immediatamente riconoscibile e, al loro meglio, hanno regalato alcuni dei momenti più intensi del cinema hollywoodiano contemporaneo.

In occasione del suo 85° compleanno, celebriamo questo autore e la sua carriera.

Ridley Scott è uno degli ultimi, veri artigiani del cinema degli scorsi quarant’anni. Sebbene la sua carriera abbia attraversato i generi più disparati (fantascienza, thriller, dramma storico, road movie e persino fantasy) senza mai scrivere una sceneggiatura, i suoi film hanno sempre mantenuto un look immediatamente riconoscibile e, al loro meglio, hanno regalato alcuni dei momenti più intensi del cinema hollywoodiano contemporaneo.

In occasione del suo 85° compleanno, celebriamo questo autore e la sua carriera.

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Chi lo ha influenzato

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Cosa ha creato

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Chi lo ha influenzato

La destrezza visiva di Scott può essere ricondotta agli anni di formazione come regista di spot pubblicitari, dove ha imparato l’importanza di realizzare immagini in movimento accattivanti, la disciplina necessaria per non lasciare mai che lo stile prevalga sulla sostanza e la necessità di riunire e organizzare squadre di professionisti altrettanto visionari.

Le opere a cui il regista fa più spesso riferimento sono quelle di Stanley Kubrick, Fritz Lang e Akira Kurosawa, tutti e tre competenti artigiani ed esperti narratori allo stesso tempo.

A partire dal suo esordio con I duellanti (1977), Scott ha fatto dell’uso espressivo della luce uno dei suoi marchi di fabbrica. Viene in mente l’opera di Kubrick, in particolare Barry Lyndon, ma con uno scarto fondamentale. Mentre Kubrick si affidava al gioco di luci naturali e artificiali, Scott ha sempre incaricato i suoi direttori della fotografia di trovare soluzioni decisamente artificiali, a volte a scapito della logica, ma mai della sospensione dell’incredulità.

Ambientato durante gli anni dell’ascesa e della caduta di Napoleone, I duellanti racconta la storia di un tenente francese costretto a combattere un duello senza fine contro un bellicoso ufficiale suo pari. Diventa presto evidente che uno dei due potrebbe morire, e non avrebbe importanza, perché agli occhi della guerra – e della Storia nel suo complesso – le loro vite sono intercambiabili e sacrificabili. Di conseguenza nessuno dei due riceve un trattamento speciale dalla luce e dalla macchina da presa del regista. L’utilizzo, da parte di Scott, di inquadrature in chiaroscuro fortemente retro-illuminate diventerà la soluzione visiva perfetta per questa metafora dell’insensatezza della guerra, e costituirà uno dei segni distintivi del suo stile.

Scott porterà questo approccio alla fotografia alle estreme conseguenze con Legend (1985), uno dei suoi film stilisticamente più raffinati. Una semplice fiaba sulla lotta tra il bene e il male – e tra la luce e le tenebre – diventa, nelle mani di Scott, un monumento alla fotografia in controluce, al punto che (contro ogni logica spaziale) la maggior parte delle inquadrature è retro-illuminata. Per quanto a volte manierata, la scelta è tutt’altro che gratuita. Mettendo in risalto i contorni degli elementi dell’inquadratura, la fotografia in controluce complimenta la profondità di campo, creando un effetto invitante, un senso di meraviglia su chi guarda, che – a prescindere dal suo buon senso – non può che essere trascinato nel magico mondo del film.

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Il momento di gloria di Scott arriva quando si occupa dell’arte di costruire il mondo di una storia. Seguendo l’esempio di Lang, il suo world-building non è solo una questione di ideazione – Scott si occupa in prima persona dello storyboard di tutti i suoi film – ma anche di lavoro di squadra, di avere tutti gli artisti coinvolti in una produzione ad alto budget (con i loro background più disparati) sulla stessa lunghezza d’onda, con l’obiettivo di raggiungere un’unica, indimenticabile visione. È proprio questa abilità che gli ha permesso di dare il via non a uno, ma a due franchise, uno per ciascuno dei suoi due principali successi: Alien (1979) e Blade Runner (1982).

Alien non avrebbe infestato gli incubi di intere generazioni se non fosse stato per la capacità di Scott di mettere in atto l’arte neo-surrealista di Hans Ruedi Giger. Il design biomeccanico dell’anatomia dell’alieno e del suo mondo rispondeva perfettamente al compito del regista di mettere in atto le allusioni Eros-Thanatos della sceneggiatura, di farle strisciare sotto la pelle dello spettatore e poi nella memoria collettiva.

Blade Runner (che prende in prestito diverse inquadrature della Metropolis di Lang) non avrebbe stabilito uno standard, se non un manifesto, per il sottogenere cyberpunk, se non fosse stato per il materiale grafico preparato dai molti artisti che hanno lavorato al progetto, uno su tutti, Syd Mead alle scenografie. Spazzatura resa glamour, appartamenti bui e disordinati, una metropoli sovraffollata in una notte di pioggia perenne, illuminata solo dalle luci al neon dei suoi grattacieli neogotici: tutto ciò ha fornito a Scott un perfetto correlativo oggettivo per questa storia di alienazione, solitudine e lotta per la sopravvivenza alla disperata ricerca di una speranza.

Scott sarebbe tornato a questa visione di un mondo sempre più nuovo in diverse sue opere successive. Dalla Tokyo illuminata al neon del frenetico Black Rain (1989) alla Firenze violentemente caotica di Hannibal (2001), la marea di Blade Runner non si è ancora ritirata. E tutto questo per virtù di stile.

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“Tutto è lecito in guerra”, recita la massima. Lo stesso vale per la sua rappresentazione e per le tattiche stilistiche da usare per raffigurarla. In questo senso, Scott ha imparato da Kurosawa la grandiosità, la maestria e la libertà necessarie per realizzare i suoi epici set-piece, sia che si tratti di battaglie spettacolari – come ne Il Gladiatore (2000), Black Hawk Down (2001) e Le Crociate (2005) – sia che si tratti di imprese più ridotte, come un combattimento uno contro uno. Colori desaturati, montaggio frenetico, inserzioni strategiche di riprese al rallentatore: questi sono solo alcuni dei molti espedienti visivi utilizzati da Scott per i suoi film epici, arrivando a stabilire un altro standard per le riprese delle scene di battaglia negli anni 2000.

Quando si parla di duelli, possono venire in mente il gran finale di Blade Runner o Il Gladiatore (per non parlare de I duellanti), ma anche il suo recente The Last Duel (2021) andrebbe ricordato. Il film si ispira a Kurosawa anche nella sua decostruzione narrativa, visto che condivide con Rashomon (1950) l’idea di esporre lo stesso evento dai punti di vista contrastanti dei personaggi coinvolti, in modo da mostrare il fallimento fin troppo umano di fronte ai grandi ideali di Verità e Giustizia (e come le donne siano quelle che soffrono di più a causa di questi sbagli).

In definitiva, però, il film dimostra che la vocazione di Scott a mettere in scena duelli è qualcosa che ha radici profonde nel suo lavoro, un tema ricorrente a cui ritorna di continuo. Non perché sia la sua comfort zone, ma perché cerca la perfezione nel suo campo di massima competenza, come ogni buon artigiano.

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Cosa ha creato

Scott ha la rara capacità di tradurre le parole dei grandi sceneggiatori in immagini intense. Come il più abile degli interpreti, Scott riesce a raggiungere il nucleo più intimo delle pagine che si trova davanti, per poi svelarne e mostrarne l’essenza – con spontaneità più che con intellettualismo – agli occhi di tutti.

Il caso di Thelma & Louise è emblematico. La sceneggiatura premio Oscar di Callie Khouri – un manifesto del femminismo della terza ondata – non perde un grammo della sua forza nelle mani di Scott. Al contrario, nel suo costante ribaltamento del male gaze e nell’uso sapiente delle badlands americane, questo road movie trasformato in thriller d’inseguimento finisce col diventare un’epica ricerca di libertà e identità nel cuore della natura selvaggia.

Thelma e Louise non sono le sole nel pantheon delle protagoniste femminili carismatiche del regista. Dalla Ellen Ripley di Alien alla Marguerite de Carrouges di The Last Duel, Scott ha dimostrato negli anni un senso per le eroine che a Hollywood – se si parla di registi uomini – è stato raramente eguagliato.

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Chi ha influenzato

Recentemente, un regista che ha dimostrato di essere al livello di Scott quando si tratta di protagoniste femminili e di raggiungere la sostanza tramite lo stile è il canadese Denis Villeneuve. Anche prima di seguire esplicitamente le orme di Scott dirigendo Blade Runner 2049, Villeneuve era già (dopo una prima parte della sua carriera nel regno del cinema d’essai) un artigiano di film di genere di alta qualità. Con il suo occhio per personaggi a tutto tondo e la sua attenzione a interpretazioni e immagini che possano funzionare pù che bene sullo schermo, potrebbe anche candidarsi come erede di Scott.

Un altro regista che ha più di un punto in comune con Scott è David Fincher (che ha esordito a Hollywood nel 1992 dirigendo il sequel di uno dei più grandi successi di Scott, Alien³, che punta in parte alle stesse atmosfere dell’originale). Entrambi si sono formati girando spot pubblicitari (e nel caso di Fincher anche videoclip). Nessuno dei due scrive le sceneggiature dei loro film, ma entrambi sanno come sfruttarle al meglio con la regia. Il look dei film di Fincher a volte ricorda le opere di Scott: la metropoli piovosa e alienante di Seven ad esempio ricorda la Los Angeles distopica di Blade Runner. E, al suo meglio, il lavoro di Fincher, come quello di Scott, va oltre il confezionare immagini visivamente raffinate: crea immagini significative per un pubblico mondiale.

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Chi è Denis Villeneuve? E quale percorso lo ha portato fino al sequel di Blade Runner?

Mettiamo le cuffie e ascoltiamo la puntata di The Cinematic Experience dedicata al regista canadese.

Nel 2016, il The Hollywood Reporter ha riunito alcuni dei registi più in vista della stagione dei premi per una delle sue tavole rotonde sui nominati. Oltre a Scott (che all’epoca stava promuovendo The Martian), erano presenti Quentin Tarantino, Alejandro G. Iñárritu, Danny Boyle, David O. Russell e Tom Hooper.

La stima che tutti questi registi nutrivano per Scott è diventata subito evidente. Ciò che li ha affascinati, oltre al suo carisma personale, è stata l’estrema fiducia di Scott nel suo mestiere, e nella perseveranza che gli permette di realizzare almeno un nuovo film ogni anno nonostante i suoi 85 anni. La seconda è una conseguenza della prima.

Non tutte le opere di Scott sono all’altezza di quelle più famose. Ma le immagini di Ridley Scott fanno quello che dicono e dicono quello intendono. E questo è il risultato più significativo che un artigiano possa mai sperare di ottenere.

Stupiti?

Buon 85° compleanno, Ridley Scott!