
“Non ho mai avuto un padre. Non l’ho mai conosciuto. È come nelle storie di schiavi: l’uomo bianco che prende la donna nera e la mette incinta“. Parole durissime di Bob Marley. Per comprendere a fondo la profondità della storia di un mito del 20° secolo bisogna partire dalle radici famigliari, che segnano inevitabilmente la sua vita finita troppo presto. Marley è morto a 36 anni a causa di una malattia. Oggi, 6 Febbraio 2025, avrebbe compiuto 80 anni: questa sera a Kingston, capitale della Giamaica, ci sarà un concerto evento in sua memoria. Saranno presenti quasi tutti i familiari, gli amici artisti. In città, nella sua vecchia casa, si trova il Museo dedicato all’icona giamaicana.
Il re del reggae è intramontabile: ai recenti Grammy Awards 2025 a Los Angeles, pochi giorni fa, ha ricevuto l’ennesimo riconoscimento alla carriera. Il suo One Love è stato eletto miglior album reggae della 67ma edizione dei Grammy. One Love è anche il titolo del film uscito nel 2023 e dedicato proprio ai successi della star credeva fortemente come il reggae fosse la musica che unisce le persone.
La storia di Bob Marley
Robert Nesta Marley, per tutti solo Bob. Il mondo conosce la leggenda giamaicana con il suo pseudonimo: resta scolpito nella memoria collettiva. Per metà artista, musicista e chitarrista. L’altra metà attivista, leader politico e religioso, due aspetti che hanno viaggiato paralleli. L’impegno a favore del popolo della Giamaica, libertà e diritti, gli sono valsi la medaglia per la pace conferitagli dall’Onu nel 1978.
Bob Marley nasce nel villaggio Nine Mile, nella Parrocchia di Saint Ann, una delle 14 comunità che compongono le tre contee che dividono il paese caraibico. Il padre di Bob era Norval Sinclair Marley, giamaicano bianco originario del Sussex, storica contea dell’Inghilterra Meridionale. La madre invece Cedella Booker, giamaicana nera. Norval al tempo era un 60enne capitano della Marina britannica, spesso in navigazione e poco presente. Nella vita di Marley è stata fondamentale la presenza della madre, che rimase incinta a 18 anni. Cedella era una cantautrice e scrittrice; trasmise la sua passione al figlio che ne fece poi un’arte.
La relazione dei genitori crea spaccature profonde tra le due famiglie, in particolare in quella paterna, che decide di diseredare il figlio Norval. L’uomo inizialmente aiuta economicamente la moglie Cedella, poi l’abbandona mentre è incinta, per trasferirsi da solo nella capitale Kingston. Muore d’infarto a 70 anni, lasciando orfano Bob a soli dieci anni. La sensibilità di Marley sulla questione razziale arriva dalla sua adolescenza, quando è vittima del pregiudizio per essere ‘mezzosangue’. “Non sono né per l’uomo bianco né per quello nero, non ho pregiudizi. Seguo la volontà di Dio che ha voluto così”, ha detto più volte Marley raccontando la sua vita.
Il soprannome per disprezzo
Negli anni ’50 anche la madre va a vivere a Kingston, in una zona difficile, un sobborgo disperato dove cresce forte il risentimento e la rabbia. “Se sei nato a Trenchtown non avrai mai la minima possibilità di farcela“, dice la leggenda del Reggae. Quando il giovane Bob si ricongiunge con la madre in quel pezzo di terra giamaicano prende le distanze da quel modo di essere. Cerca in tutti i modi di farsi portavoce di un sentimento diverso tra i suoi coetanei. Ci prova con la fede e con la musica. Lo chiamano White Boy per disprezzarlo. A tutto ciò l’artista risponde con la fede e resilienza: di qui il soprannome “tuff gong”, “il più forte”. Diventa poi il nome della casa discografica di Bob Marley & The Wailers.
A 15 anni lascia la scuola: la musica è la sua vocazione, il richiamo naturale. Lavora prima come saldatore, si sposa quasi 18enne, vuole diventare Rasta. Dopo il matrimonio vola verso gli Stati Uniti, dove nel frattempo sua madre si è risposata. Per un periodo lavora alla Chrysler, nello Stato del Delaware. I soldi servono per sopravvivere: sacrifici, orari massacranti, ma la fede e la sua visione fanno la differenza.
Bob Marley e la musica: i miti da Ray Charles a Elvis
Neville O’Riley Livingstone, per tutti Bonny, è una delle figure chiave nella vita di Bob Marley. Il musicista, con il quale scatta un’amicizia fraterna, lo introduce nel mondo della musica: canti religiosi, strumenti a corde, il canto. Siamo sempre in un contesto di povertà.
I due si ingegnano per ascoltare da una radio scassata musica Rhythm & Blues, conoscendo artisti come Ray Charles e Elvis Presley, che segnano profondamente la bultura musicale di Bob. Bonny suona con un chitarrista giamaicano, Joe Higgs. Bob partecipa ad alcune session con il duo e conosce anche Peter Tosh, altro musicista giamaicano.
Nel 1963 Marley, Tosh e Bunny formano il gruppo The Teenagers, che cambierà più volte nome fino al definitivo The Wailers. Nasce un legame fortissimo con la band reggae che supporta Bob Marley fino alla sua morte, l’11 maggio del 1981.
La svolta artistica a Londra
Il Regno Unito segna un’altro punto di svolta nella carriera artistica di Bob Marley. Nel 70 l’artista giamaicano vive a Londra con la sua band. Gli inizi non sono facili perché le radio britanniche trasmettono poco i suoi pezzi. Poi Londra diventa la sua seconda casa. Aiuta la comunità rastafariana a crescere attraverso concerti in tutto il Regno Unito. Nel 1972 l’incontro con il produttore britannico Chris Blackwell, fondatore della casa discografica Island Records, pone le basi per il successo oltremanica di Marley. Il primo pezzo simbolo dell’avventura inglese è Catch A Fire, nel quinto album dell’artista.
Nel 1973 arriva il brano forse più celebre di Bob, No Woman, No Cry. 37mo posto fra le 500 migliori canzoni di tutti i tempi secondo Rolling Stones. Anche in questo caso sul significato della canzone è stato detto e il contrario di tutto. Di certo c’è che si tratta di una canzone dolce e amara. Un messaggio di speranza verso il coraggio delle donne e l’invito a non piangere ma piuttosto a combattere e crederci sempre, nonostante la perdita di affetti molto cari. Anche per questo motivo, secondo alcuni critici, il brano potrebbe essere stato scritto pensando alla storia della madre: una donna abituata a lottare da sola dopo essere stata abbandonata dal padre.
Gli anni della lotta contro il cancro
Nel 1977, giocando a calcio, si infortuna a un piede e, quasi per caso, gli viene diagnosticato un melanoma al dito del piede. I medici consigliano di amputare l’alluce, ma Marley si rifiuta per motivi religiosi.
Tenta cure alternative, purtroppo inutili. Il cancro è aggressivo e si diffonde per tutto il corpo. Bob muore a Miami durante un viaggio che dalla Germania, dov’era andato per tentare altre cure disperate, lo avrebbe dovuto riportare in Giamaica. È sepolto nel suo villaggio con un pallone, l’inseparabile chitarra Gibson Les Paul e un rametto di marijuana.
La passione per il calcio
Calcio e musica sono spesso un binomio indissolubile. Così è stato anche nella vita di Bob Marley: da un lato concerti e melodie, dall’altra la passione per il pallone. Pur nella sua modesta tradizione, il calcio giamaicano ha avuto icone come Allan Cole. Amico e collaboratore di Bob Marley, Cole lo ha accompagnato in tour in giro per il mondo. Fra una registrazione e un concerto, li si poteva trovare a giocare a pallone nei parchi, in strada o nei parcheggi.
Sulla vita di Bob Marley circolano diverse leggende, alcune mai confermate né smentite dall’artista. Si dice che fosse un accanito tifoso del Tottenham. Di certo c’è solo che amava Pelé e il Brasile, per sua stessa ammissione. Era disponibile al gioco e allo scherzo, come quando disse a un giornalista che prima di intervistarlo avrebbe dovuto sfidarlo a una partita di calcio. Negli anni in Inghilterra, Marley prende casa a Chelsea, uno dei quartieri più ricchi e affascianti di Londra. Quando non è negli studi di registrazione con la sua band è facile trovarlo al Battersea Park, un pezzo di verde di fronte al Tamigi e poco fuori la zona di Chelsea.
L’attentato scampato nel 1976
Dell’attivismo politico Bob Marley ha sempre fatto un punto fermo, come la musica. Anche senza schierarsi politicamente, si espone di continuo sui diritti umani, la difesa dei popoli africani e le battaglie contro schiavitù e razzismo. Fino all’attentato scampato il 3 dicembre 1976.
Mancano due giorni allo Smile Jamaica Concert, che si deve tenere al National Heroes Park di Kingston. L’evento, organizzato dal governo, è visto come un palcoscenico politico prima dell’imminente tornata elettorale. Sette uomini armati fanno irruzione a casa di Bob Marley con l’obiettivo di ucciderlo. Con lui c’è la moglie Rita, il manager Taylor e l’assistente Griffiths.
Stando ai racconti più accreditati, la mano che cerca di attentare alla vita di Marley è quella di sicari che sarebbero stati assoldati dai vertici del partito laburista della Giamaica, al tempo guidato da Edward Seaga, avversario politico di Michael Manley alle elezioni. La presenza di Bob all’evento è vista dagli avversari come un endorsement al Primo Ministro Manley, leader dei democratici.
Secondo alcune testimonianze, tra gli assalitori è coinvolto anche Jim Brown, guardia del corpo di Seaga. Sullo sfondo possibili legami con la Cia, in un presunto scambio di droga e armi. Fortunatamente Marley, la moglie Rita e lo staff di collaboratori rimasero solo feriti. “Non preoccuparti di niente. Perchè ogni piccola cosa andrà bene”, cantava Bob Marley in Three Little Birds, un anno più tardi.