Deadpool e Montefeltro | Come liberarsi dalla schiavitù del corpo

Postato il 24 Agosto, 2024

Paragonare Federico da Montefeltro e Deadpool può risultare un azzardo. Il primo è uno degli uomini politici più importanti dell’Italia Rinascimentale, rappresentato in numerosi ritratti, come nel I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza di Piero della Francesca. Il secondo è un personaggio nato dall’immaginario Marvel, protagonista di recente del film Deadpool & Wolverine (2024). Tuttavia i due hanno in comune una caratteristica: la bruttezza fisica. Per diversi motivi i due personaggi condividono questo destino; ma anziché limitarli li esalta, contribuendo a rendere le loro storie avvincenti e significative.

Chi era Federico da Montefeltro

Federico da Montefeltro (1422-1482) è stato uno dei personaggi più iconici del Quattrocento italiano, incarnando l’immaginario del Signore rinascimentale. È apprezzato sia per le sue qualità militari, che nel 1458 gli valgono la carica di capitano generale dell’Esercito pontificio, sia per le sue doti politiche, che lo pongono nella considerazione generale alla pari con l’altro grande protagonista politico dell’epoca, Lorenzo il Magnifico (1449-1492).

Altra attività principale del Montefeltro è il mecenatismo, tanto che nella sua corte trovano patrocinio alcuni dei maggiori intellettuali e artisti dell’epoca: tra questi Piero della Francesca, Paolo Uccello e Pedro Berruguete.

Il Duca sfregiato

Federico tuttavia è celebre anche per il suo aspetto fisico sgradevole. Oltre ad essere malato di gotta, patologia che gli impedisce persino di camminare correttamente, il duca durante una giostra rimane ferito da una lancia che lo priva dell’occhio destro e gli deforma il naso. Questo incidente gli fa guadagnare il poco lusinghiero soprannome di Duca sfregiato. È paradossale come uno dei personaggi più influenti del Rinascimento si ponga in contrasto con il contesto della sua epoca, che “impone” l’ostentazione della virtù, morale e fisica. Per adeguarsi a questi canoni, non era raro che i nobili aggiustassero e ritoccassero il proprio aspetto.

Malgrado si circondi dei più grandi artisti del suo tempo, il Montefeltro non cerca di abbellire il proprio fisico ma anzi accentua la propria condizione, facendone parte integrante della sua identità. Federico trasforma quella che può essere una debolezza in un segno distintivo di forza e resilienza: una caratteristica che incute timore nei nemici e ammirazione nei seguaci, quasi come la reincarnazione di un eroe classico. Queste peculiarità emergono nel celebre ritratto di Piero della Francesca conservato nella Galleria degli Uffizi.

Il doppio ritratto dei duchi di Urbino, icona di bruttezza

I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza è un dittico che ha come protagonisti i duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza, che di profilo si scrutano e si osservano. Realizzato tra il 1465 e il 1472 da Piero della Francesca, il dipinto è una delle opere più iconiche del Rinascimento Italiano che oggi si può vedere agli Uffizi.

L’artista lo dipinge con una tecnica mista di olio e tempera e lo racchiude in un’unica cornice, per mettere in risalto il contrasto della coppia. Sforza è rappresentata con un’acconciatura elaborata, gioielli e drappi preziosi che mettono in risalto la bianchezza della sua pelle: un’allegoria forse anche della prematura morte della donna. Federico è invece raffigurato molto più possente e austero, con la veste e la berretta rossa. In rilievo è posta anche la pelle, ritratta nei minimi particolari.

Il paesaggio che fa da sfondo, invece, è di chiara ispirazione fiamminga e sembra raffigurare la campagna urbinate. Una particolarità del dittico è che anche il retro è dipinto: raffigura i duchi portati in trionfo, alla maniera classica, su carri trainati da cavalli. Il Duca è accompagnato dalla Vittoria Alata, che lo incorona, e dalle quattro Virtù cardinali, Giustizia, Prudenza, Fortezza e Temperanza, che rappresentano le qualità essenziali del buon Principe. La duchessa invece è scortata dalla Temperanza e dalle tre Virtù teologali, Carità, Fede e Speranza, simbolo della purezza della brava donna. 

Deadpool, accettazione e rinascita

Deadpool, al secolo Wade Wilson, è uno dei supereroi più recenti in casa Marvel e allo stesso tempo uno dei più amati. Comparso per la prima volta nel febbraio del 1991, si impone fin da subito come uno dei personaggi più dirompenti nel mondo dei fumetti. Il suo successo è legato soprattutto all’originalità. Deadpool ha un marcato senso dell’umorismo, carico di riferimenti sessuali espliciti e pop. In più, i suoi dialoghi spesso rompono la quarta parete per rivolgersi direttamente ai lettori.

A differenza del classico supereroe, Deadpool non ha un fisico statuario. Anzi, il suo corpo è sfigurato e addirittura inquietante. Sottoposto a esperimenti crudeli per curare il cancro, acquista poteri rigenerativi straordinari, al prezzo di una salute mentale instabile e un corpo martoriato da rigonfiamenti, cicatrici e pus. Il rapporto del supereroe con il proprio aspetto fisico inizialmente è molto difficile, tanto che non lo accetta, lo nasconde. È l’unico supereroe che utilizza la maschera non per celare la propria identità ma per occultare il proprio aspetto, in primis a sé stesso.

Ci vuole tempo prima che Deadpool accetti la propria condizione, rendendosi conto che la bruttezza per lui è il simbolo della salvezza, di una seconda opportunità e di come Deadpool non possa esistere senza di essa. La bruttezza è il giusto prezzo da pagare per la rinascita. Solo quando Wilson se ne rende conto può esprimere appieno la determinazione del suo carattere e trasformare la sua apparenza in un elemento di forza. La sua deformità diventa uno strumento narrativo per esplorare temi di accettazione e di identità.

Accettarsi per essere liberi

Il Montefeltro e Deadpool, il duca sfregiato e il mercenario chiacchierone sono personaggi diversi per due diversi modi di approcciarsi al proprio aspetto fisico ma allo stesso tempo esempi di come una debolezza possa essere trasformata in un punto di forza, diventando un segno distintivo del proprio io.

Proprio come come scriveva Seneca a Lucillo: “Non è davvero libero l’uomo che è schiavo del proprio corpo”. 

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