David Foster Wallace, Jennifer Egan, Kurt Vonnegut, Zadie Smith, Colson Whitehead, Bernardine Evaristo: non c’è grande autore o autrice del mondo angloamericano contemporaneo che non sia stato tradotto da Martina Testa, prima per Minimum Fax e poi per Edizioni SUR. L’invito ad Hypercritic Burning Festival, a Torino a luglio 2023, parte dai romanzi di Cormac McCarthy che Testa ha tradotto per Einaudi, La Strada (2005) e Non è un paese per vecchi (2006). Ma la conversazione condotta da Alessandro Avataneo, fondatore di Hypercritic, spazia dalle trasformazioni dell’editoria al politicamente corretto, dal capitalismo al futuro della narrativa.
- L’evoluzione del mondo editoriale
- L’impatto sulla narrativa angloamericana
- La difficoltà di trovare una “voce nuova” nel panorama del memoir
- La traduzione parte dall’ascolto
- La traduzione come mestiere artigianale e di squadra
- Letteratura e politicamente corretto
L’evoluzione del mondo editoriale
Quando Martina Testa inizia a lavorare come editor, a Minimum Fax nel 2005, è un periodo molto vivace per l’editoria indipendente: “C’erano svariate case editrici e molto dialogo fra noi – dice Testa – Non ci si poneva proprio il problema di quanto vendessero i libri ma si sceglievano opere che si pensava dovessero arrivare al pubblico”.
Nel 2010 approda a Edizioni SUR e il suo lavoro – oltre alla traduzione – continua a essere quello di leggere gli autori angloamericani per valutare quali acquisire per il mercato italiano. Ma il paradigma nell’ultimo decennio si è completamente ribaltato: “Negli ultimi vent’anni il cervello umano ha proprio perso la funzione della lettura – è convinta Testa – leggere è diventato come ricamare, qualcosa che non si fa quasi più. C’è troppa concorrenza di attività più facili, divertenti e stimolanti nel panorama digitale. E il mercato editoriale confonde gli acquirenti con i lettori, ma io stessa ho la casa piena di libri che non ho mai letto”.
L’impatto sulla narrativa angloamericana
Queste trasformazioni, secondo Martina Testa, hanno avuto un impatto sulla narrativa angloamericana che arriva sul mercato editoriale: “Mi sembra che conti molto di più avere una storia da raccontare – dice – Quello che leggo è più spesso simile a un diario o si presta già a trasformarsi in un film. Le operazioni sul piano linguistico passano in secondo piano: scompare quella maestria nella costruzione della frase, nel trovare il ritmo. Si cerca semplicemente di esprimere la propria voce, che spesso non cambia mai molto. E se si tratta di romanzi d’invenzione, i protagonisti sono sempre schematicamente personaggi che vogliono raggiungere un obiettivo, affrancarsi da uno stato di oppressione, o storie di formazione”.
La difficoltà di trovare una “voce nuova” nel panorama del memoir
“La letteratura oggi è basata sul brand personale dell’individuo – dice la traduttrice ed editor – Il dilagare dei social network ha fatto sì che ognuno di noi fosse un ‘io’ che poteva esporsi su una platea vastissima e quindi costruirsi, mostrarsi, raccontarsi dalla mattina alla sera. Ciascuno di noi è in vetrina: questo è entrato nello zeitgeist, sulla spinta delle grandi piattaforme tecnologiche che ne traggono un profitto”.
Dice Martina Testa, che si dichiara marxista: “Per i colossi come Google e Amazon, è semplice e redditizio profilare categorie di individui e targettizzare la pubblicità verso certe fasce di consumatori. Ma questo ha un’influenza su come percepiamo e consumiamo la cultura”. In un contesto così mutato dalle leggi di mercato, trovare una “voce nuova” è una sfida: per Martina Testa questo avviene quando incrocia un autore o autrice che riesce a “unire, rielaborare, decostruire e ricombinare la letteratura del passato, in modi nuovi e particolari“.
La traduzione parte dall’ascolto
Che traduca un premio Pulitzer o un Nobel o un’autore commerciale, il punto di partenza nel lavoro di traduzione per Martina Testa è sempre l’ascolto: “Cerco di capire non solo il significato del testo ma perché l’autore abbia scelto certe parole, un linguaggio facile o difficile, il suono di una frase, un effetto particolare. E poi cerco di capire come renderlo in italiano”.
Nel caso di Cormac McCarthy, la sfida è stata opposta: quella di tradurre un linguaggio semplice e a volte ripetitivo in una lettura che in italiano non suonasse ridondante e banale. “È un inglese super scarno – dice – e per tutto il tempo ho sperato che l’esito non fosse troppo noioso e piatto”.
Ne La Strada, le azioni raccontate sono ripetitive: la pioggia, padre e figlio che avanzano a fatica, si fermano, cercano di resistere a condizioni estreme. Il lavoro fatto in traduzione è stato la ricerca di “un effetto simile alla drone music, quasi ipnotico, una monotonia che però non risultasse pesante”.
La traduzione come mestiere artigianale e di squadra
Per Martina Testa, tradurre equivale a “costruire un meccanismo che funziona bene, come un orologio o una macchina che deve restituire l’opera creativa di un autore o autrice“, in cui non sente di esprimere se stessa o la sua creatività. E in cui conta il lavoro di squadra: “Non avrei ottenuto lo stesso risultato se le mie traduzioni di McCarthy non fossero riviste da Grazia Giua, editor di Einaudi, e dalla traduttrice Maurizia Balmelli. Ogni lavoro beneficia di riletture, revisioni, spunti e idee esterne, anche se i ritmi industriali dell’editoria di oggi non lo permettono più”.
Diverso il ruolo di editor: “In questa veste esprimo me stessa, le mie convinzioni, i miei gusti e sento che mi rispecchia. Ma so che è un privilegio poter fare questo lavoro esercitando la mia fantasia e libertà. Per noi la missione non è mai stata la scelta di libri che il pubblico volesse leggere, ma la ricerca di opere che secondo noi avrebbe dovuto scoprire”. Nei casi di Jennifer Egan, Colson Whitehead e Bernardine Evaristo, scoperti da Martina Testa e acquisiti per il mercato italiano prima ancora del grande successo e dei premi negli Usa, “ho avuto molto chiaro fin dall’inizio che si trattasse di gemme che sarebbero diventate best seller“.
Letteratura e politicamente corretto
“La letteratura deve offendere e indignare”. Martina Testa è decisa nel rifiutare ogni tentativo di revisione delle opere del passato alla luce degli standard odierni. Operazioni come la contestata riscrittura di Roal Dahl, autore de La fabbrica di cioccolato, epurata da termini come “grasso”, “brutto”, pazzo”, ma anche “strega” o “nano”, non fanno bene alla letteratura.
Di nuovo, è uno degli effetti del capitalismo: “Tutto ciò che è scomodo, che fa star male, che non si capisce, richiede sforzo, spaventa perché non piace e rischia di non vendere”.
“Io credo che nel mercato forgiato sul capitalismo della sorveglianza – conclude Testa – i contenuti culturali vadano necessariamente a inaridirsi. Se non c’è una nicchia, un ecosistema in cui si possa esistere al di là delle logiche di mercato, la controcultura è destinata a scomparire”. Allora l’unica soluzione è “la resistenza culturale”.